
L’Opec+ annuncia aumenti nella produzione di petrolio: prezzi in calo e rischi per la transizione energetica

Dopo ritardi e tentennamenti proseguiti per lunghi mesi, ieri otto Paesi che fanno parte dell’Opec+ hanno deciso di aumentare gradualmente la produzione di petrolio a partire dal 1 aprile 2025: si tratta di una scelta in grado di determinare l’andamento del mercato, in quanto l’Opec+ rappresenta il cartello che controlla il prezzo del petrolio chiudendo o aprendo alla bisogna i rubinetti della produzione.
Basti osservare che dai Paesi Opec e Opec+ arriva circa il 59% della produzione globale di petrolio (48 milioni di barili al giorno nel 2022) e quindi influenzano gli equilibri del mercato petrolifero globale e i prezzi del petrolio.
I Paesi interessati dalla decisione di ieri sono otto: Arabia Saudita, Russia, Iraq, Emirati Arabi Uniti, Kuwait, Kazakistan, Algeria e Oman. Insieme, hanno annunciato un aumento della produzione pari a 138mila barili di petrolio al giorno, con successivi incrementi che entro il 2026 andranno progressivamente ad aumentare la produzione per 2,2 milioni di barili al giorno decisi negli scorsi anni per tenere alti i prezzi del petrolio.
Le conseguenze sui mercati non si sono fatte attendere: i future sul Brent europeo sono scesi a 70,57 dollari al barile, mentre l’indice del greggio statunitense (Wti) è scivolato a 67,54 dollari al barile. Un brusco cambio rotta sul quale hanno avuto una decisa influenza le pressioni del presidente Usa Donald Trump, che da un mese chiede all’Opec di tagliare la produzione di petrolio per contenere i prezzi.
Questa tendenza può riservare soprese favorevoli per i consumatori, comprimendo artificialmente i prezzi del petrolio nel breve termine, ma per lo stesso motivo non incoraggia gli investimenti su fonti energetiche alternative alle fossili, deprimendo le prospettive di transizione energetica. Ma più che i volumi in sé degli aumenti previsti dall’Opec+, per il momento oggettivamente limitati, preoccupa la possibile saldatura politica tra due giganti petroliferi autocrati per eccellenza – Arabia saudita e Russia – con il nuovo Stato autoritario in pectore: gli Usa di Trump.
«Gli Stati Uniti, l'Arabia Saudita e la Russia potrebbero non trarre vantaggio da prezzi del petrolio molto bassi, diciamo 50 dollari al barile e meno, come quelli osservati durante il culmine della pandemia. Ma non credo che i tre siano d'accordo su cosa sia un prezzo "ragionevole" – osserva nel merito su Bloomberg Javier Blas, esperto di mercati delle materie prime – Oggi gli Stati Uniti sono di gran lunga il più grande produttore di petrolio al mondo, pompando quasi quanto Arabia Saudita e Russia messe insieme. Prezzi del petrolio ultra bassi potrebbero essere dannosi per l'economia del paese tanto quanto prezzi alle stelle. L'America può collaborare con sauditi e russi? Chiamatelo "grande patto del petrolio", un patto per mantenere i prezzi dell'energia entro un intervallo che funzioni per tre paesi che, storicamente, erano antagonisti. Può essere geopolitica fantasy, ma non è mera fantascienza. In un mondo in cui la Casa Bianca è o, per lo meno sembra, più vicina alle posizioni del Cremlino che in qualsiasi altro momento, pensare all'impensabile è utile, anche nel petrolio».
Allargando dunque la prospettiva al mero andamento di borsa dei prezzi petroliferi, la possibile saldatura politica tra Usa, Russia e Arabia saudita significa una sola cosa per l’Italia e l’Ue, che sono grandi importatori di combustibili fossili: la transizione ecologica è sempre più urgente per liberarsi dal ricatto di potenze straniere, con la diffusione degli impianti rinnovabili sui territori a rappresentare la più efficace strategia per un’autonomia strategica continentale che possiamo mettere in campo.
