
Lupi e orsi, ecco qual è il reale impatto dei grandi carnivori sugli allevamenti

È possibile determinare l’impatto economico della predazione di lupo e orso sul comparto zootecnico? O meglio, è possibile individuare nella predazione un fattore decisivo di declino della zootecnia alpina? La domanda, prima di essere un quesito in attesa di risposta, è al tempo stesso anche un dubbio. Il dubbio è: ha senso porre una questione complessa in termini così semplificati e diretti? E la risposta al dubbio è: no, non ha senso.
Troppe le variabili in gioco su scala locale, nazionale, europea per poter sperare di approdare ad una risposta univoca. Eppure, molto si può dire. E utilmente. Se non altro, proprio per disegnare quel reticolo multifattoriale che determina la griglia interpretativa in cui quesiti di questo tipo – che sono ricorrenti e che planano troppo spesso come verità assolute sui tavoli di discussione – devono essere calati. L’idea, dunque, non è quella di eludere la domanda, che resta lì, pienamente legittima, quanto piuttosto spiegare perché la risposta è difficile. Per capirci qualcosa dobbiamo mettere insieme Bruxelles, Roma e Trento, con qualche utile divagazione e limitandoci, per incominciare, ai soli costi diretti.
I DATI PER L’EUROPA
Partiamo dall’Europa grazie soprattutto a due lavori: “Livestock depredation and large carnivores in Europe: Overwiew for the EU Platform”, uscito nel dicembre 2023 e realizzato dall’ EU Large Carnivore Platform Secretariat e “Common agricoltural policy (PAC) and prevention of damages caused by large carnivores”, uscito nell’aprile 2024 a cura del WISO, lo specifico gruppo di lavoro della Convenzione delle Alpi, assieme ai tecnici del progetto Life WolfAlps EU.
Il primo dato sorprendente è la difficoltà nel reperimento di dati attendibili su scala continentale, e questo persino sul numero dei capi di bestiame presenti nei diversi Stati.
Il secondo è la difficoltà nel confrontarli perché ogni Paese ha il proprio modo di raccoglierli, elaborarli, presentarli. Già questo complica parecchio le cose. Inoltre ogni Paese è libero di ricorrere o meno ai fondi messi a disposizione dalla PAC (Politica Agricola Comune) che, va detto, è un po’ il convitato di pietra di ogni ragionamento attorno alla sostenibilità della predazione, visto che assorbe circa un terzo del bilancio dell’Unione Europea, per l’esattezza 387 miliardi nel quinquennio 2021-2027, ed è da lì che arrivano molti dei fondi a sostegno della zootecnia. Comunque sia, sintetizzando, quello che emerge è un quadro con alcune evidenze. Partiamo dagli ovini, ovvero dal comparto dove la pressione dei grandi carnivori, soprattutto del lupo, è più forte. Le pecore predate rappresentano lo 0,07% del numero totale di ovini macellati per il consumo umano in ambito UE e lo 0,04% del patrimonio ovino totale. “Recenti report sul benessere degli ovini – si legge inoltre – non hanno evidenziato la predazione come una tendenza significativa e preoccupante per il loro benessere”.
Naturalmente si può obiettare che il dato in sé è importante ma limitatamente significativo in quanto la presenza e la distribuzione del lupo a livello continentale non è né continua né omogenea e che ci sono regioni europee di pianura, ad alta densità di ovini, dove il lupo è praticamente assente. Questo vuol dire che inserite nel calderone continentale provocano una sorta di effetto di diluizione dell’impatto reale della predazione. Obiezione accolta. Dunque, digressione numero uno: stringiamo il focus su un territorio con caratteristiche geografiche più simili a quelle che conosciamo in Trentino e – interpolando i dati forniti dalle differenti Camere dell’Agricoltura regionali, dall’ INSEE (Institut national de la statistique et des études économiques), da altri fonti ufficiali delle regioni transalpine AuRa (Auvergne-Rhone-Alpes) e PACA (Provence-Alpes-Cote d’Azur), dalle relative DREAL (Direction régionale de l’environnement, de l’amenégement et du logement) e dall’ANSES (Agence nationale de sécurité sanitaire de l’alimentazion, de l’environnement et du travail) – vediamo cosa accade in Francia, dove nei dieci dipartimenti a est della Valle del Rodano, in un contesto in larga parte alpino, si concentra oltre il 90% dei circa 1000 lupi francesi in presenza di 1.068.000 capi di ovini e 416.000 di bovini. Qui nel triennio 2019-2022 il tasso di predazione sugli ovini è stato dello 0,8% (media di 8477 animali predati nel triennio, ovvero 8 pecore ogni mille capi), mentre quello sui bovini negli otto dipartimenti interessati dalla presenza del lupo tra il 2021 e il 2022, ha oscillato tra lo 0,03% e lo 0,07% (ovvero da 3 a 7 capi animali predati ogni diecimila capi, per un totale di 269-280 capi all’anno. Questo scenario è particolarmente interessante per due ragioni. La prima: perché i dati in questo caso si riferiscono esclusivamente ai distretti dove il lupo è effettivamente presente (senza quindi l’“effetto diluizione” del dato a livello nazionale).
La seconda: perché in estate in alpeggio si raggiungono densità di ovini per noi inusuali. Basti pensare che nei 67.900 ettari del Parco nazionale del Mercantour (una superficie di poco superiore a quella del Parco Adamello Brenta, che è di 62.000 ettari), e per di più in ambiente schiettamente alpino, nei mesi estivi pascolano 150.000 pecore, oltre il doppio di quante ne pascolano in tutta la regione Trentino-Alto Adige. Le percentuali di predazione sono un elemento di valutazione già di per sé significativo ma non ancora sufficiente. Bisogna migliorare la cornice di riferimento e capire cosa quelle percentuali rappresentano in termini di mortalità complessiva di comparto, macellazione esclusa, ovviamente, ossia quanto la predazione da parte del lupo incida rispetto alle (molte) altre cause di mortalità, derivanti per esempio da patologie di vario genere, incidenti, eventi atmosferici avversi, fulmini, dispersione. Anche in questo caso trovare dei dati non è semplice e il panorama è assolutamente disomogeneo perché non esistono strumenti puntuali di controllo centralizzato e coordinato di raccolta dati né a livello nazionale né, tanto meno, a livello europeo. Ci sono delle stime limitate a pochi Paesi. Quelle per noi più interessanti riguardano Austria e Germania, che con noi condividono porzioni del territorio alpino. In Austria la mortalità complessiva (capi morti per le cause sopra riportate) è del 7,7% a fronte dello 0,11% di capi predati, mentre in Germania è dell’8,7% a fronte dello 0,47% di capi predati. Sempre a livello nazionale. Però, ripetiamo, si tratta di stime (“Livestock depredation and large carnivores in Europe: Overwiew for the EU Platform”, pagg. 35-36). L’unico dato certo, recentissimo e certificato, viene dalla Svizzera, dove dal 2020 è stato istituito un registro obbligatorio sulla mortalità degli ovini, sempre escludendo i capi macellati o esportati. Il quadro che ne esce, e di cui i media elvetici si sono occupati nel gennaio del 2025, ha offerto dei risultati significativamente diversi rispetto all’atteso e che si discostano dai dati austriaci e tedeschi. La perdita di ovini nel 2023 in Svizzera si attesta infatti al 13,5%, contro il 3,5% dei bovini. In numeri assoluti, a fronte di un numero di ovini sostanzialmente stabile a livello federale (circa 326.000 animali), la mortalità è passata dai 40.000 capi del 2021 ai 56.838 del 2024. Quest’ultimo dato, quello relativo al 2024, deve però ancora essere elaborato, perché porterebbe al mortalità al 17,4%. “L’Ufficio Federale per la Sicurezza Alimentare (FSVO) – scrive il quotidiano “Tages Anzeiger” nella sua edizione del 9 gennaio 2025 – spiega l’aumento della mortalità ovina con le malattie, il clima e le condizioni generali di allevamento”. Con ciò, l’impatto diretto dell’azione predatoria del lupo sugli ovini risulterebbe molto più contenuto dell’atteso. Sempre restando ai dati 2023, con circa 1000 esemplari predati, il numero di ovini morti attribuibili al lupo non supererebbe il 2% delle morti totali, contro il 20% ipotizzato a livello di stima prima dell’introduzione del registro. Tornando al quadro generale europeo, va comunque ricordato che localmente l’impatto della predazione può essere notevolmente più elevato rispetto alla media e che il carattere disomogeneo e frammentario dei dati offre solo l’opportunità di una disamina parziale della situazione. Il 20% ipotizzato in Svizzera, per esempio, è realtà in alcune province della Spagna centro-occidentale e non solo. Questo significa che le perdite dirette possono variare significativamente a seconda delle pratiche di gestione del bestiame, così come accade in relazione all’orografia dei territori e all’implementazione delle misure di protezione. Tema questo che, assieme a quello della sostenibilità dei costi delle politiche di prevenzione, toccheremo in un prossimo numero dei Fogli. bestiame e dell’implementazione di misure di protezione.
I DATI PER L’ITALIA
Per quanto riguarda l’Italia, lo studio di riferimento è quello prodotto da Ispra nel luglio 2022 e dal titolo “Stima dell’impatto del lupo sulle attività zootecniche in Italia. Analisi del periodo 2015-2019”.
Nel quadriennio preso in considerazione, i capi predati nell’82% dei casi erano ovicaprini e nel 14,2% bovini. Più nel dettaglio, la predazione su ovini rappresenta il 94,4% di tutti gli eventi predatori esaminati da Ispra. Le aziende colpite con capi bovini sono risultate in media ogni anno 526,8 pari allo 0,33% di tutte quelle presenti sul territorio nazionale. Le aziende ovicaprine che hanno subìto danni sono state in media ogni anno 1.008,6 pari allo 0,7% del totale delle aziende ovicaprine registrate a livello nazionale. Dati, quindi, in linea con il panorama europeo. Va detto, inoltre, che il numero di aziende vittime di danni da lupo ha subito un sensibile aumento nel corso del periodo di studio, presumibilmente a causa dell’espansione naturale della specie nel nostro Paese degli ultimi anni. Per gli allevamenti bovini tale cifra è passata dai 431 del 2015 ai 638 del 2019, con un aumento del 48% delle aziende danneggiate nell’arco di 5 anni. In modo analogo, il numero di allevamenti ovicaprini che hanno subito almeno un evento di predazione è passato dagli 883 del 2015 ai 1.259 del 2019, con un aumento del 42,5% durante il periodo preso in analisi. Tra le aziende bovine con danni, il numero medio di eventi di predazione subiti ogni anno è risultato pari a 1,54, un valore rimasto sostanzialmente costante durante l’intero periodo di studio. Il 72,5% delle aziende danneggiate ha subito un solo evento di predazione l’anno, il 14,3% due eventi, il 6,9% tre eventi, mentre il restante 6,3% delle aziende ha subito più di tre eventi di predazione in un singolo anno solare, fino ad un massimo di 29 eventi in un solo anno Per quanto riguarda le aziende ovicaprine danneggiate, il numero medio di eventi di predazione subiti ogni anno è risultato pari a 1,78 per azienda. Anche in questo caso il numero di eventi per azienda per anno, se esaminato a livello nazionale, è rimasto sostanzialmente costante durante l’intero periodo di studio 2015-2019. Il 67,8% delle aziende danneggiate ha subito un solo evento di predazione l’anno, il 15% due eventi, il 6,2% tre eventi, mentre il restante 11% delle aziende ha subito più di 3 eventi di predazione in un singolo anno solare, fino ad un massimo di 36 eventi in un solo anno per una singola azienda. Tra le aziende bovine danneggiate, il numero medio di capi perduti ogni anno a causa di predazione da lupo o cane è risultato pari a 1,96. Il 59,2% delle aziende ha perduto un solo capo di bestiame durante un intero anno solare, il 19,1% due capi, il 9,2% tre capi, mentre il restante 12,5% delle aziende ha perduto più di tre capi bovini in un singolo anno, fino ad un massimo di 38 capi uccisi in diversi eventi di predazione durante lo stesso anno solare. Per quanto riguarda invece le aziende ovicaprine che hanno denunciato danni da predazione, il numero di capi predati ogni anno in una singola azienda è risultato essere pari in media a 4,04. Il 24,5% delle aziende danneggiate ha perduto un solo capo di bestiame durante un intero anno solare, il 16,3% due capi, l’11,3% tre capi, il 31,7% tra 4 e 10 capi ovicaprini, mentre il restante 16,2% delle aziende ha perduto più di 10 capi ovicaprini in un singolo anno. La distribuzione di frequenza del numero di capi predati alle aziende bovine ha evidenziato, dunque, una forte concentrazione delle perdite a scapito di un numero relativamente limitato di aziende. Il confronto con una distribuzione teorica ed omogenea ha evidenziato che 368 aziende, pari al 20,5% delle aziende colpite da almeno un danno, hanno perduto il 62,2% di tutti i capi bovini predati.
Una simile distribuzione delle predazioni accertate è stata riscontrata anche per le aziende ovicaprine, per le quali una frazione minoritaria delle aziende colpite ha perduto la maggioranza dei capi predati. In particolare, 922 aziende, corrispondenti al 25,9% del totale, hanno perduto il 73,3% dei capi ovini predati. Nessuna di queste aziende hotspot si trova in Trentino-Alto Adige.
I DATI PER IL TRENTINO
I dati che riguardano la provincia di Trento fanno riferimento al sopracitato lavoro Ispra del 2022, alla Conferenza d’informazione sui Grandi Carnivori che si è tenuta presso il Consiglio provinciale di Trento il 27 febbraio del 2024, al Rapporto Grandi Carnivori 2023 curato dal Servizio Faunistico della Provincia autonoma di Trento, e al lavoro prodotto dal Muse nell’agosto 2023 dal titolo “Predazioni da lupo sul bestiame domestico in provincia di Trento: analisi delle dinamiche e delle strategie di prevenzione".
Innanzitutto, una veloce fotografia del settore, aggiornata al dicembre 2023. Allevamenti bovini: in Trentino sono presenti 1600 piccoli allevamenti con 42.000 capi, per una media di 25 capi per allevamento. La maggior parte di questi allevamenti è di piccole dimensioni: 236 ricadono nella classe di consistenza 1-2 capi e altrettanti in quella 3-10. Solo 87 allevamenti superano i 100 capi. Allevamenti ovini e caprini: a fine 2023 si contavano 1760 allevamenti con 32.000 pecore e 10.000 capre. In questo caso si osserva una distinzione netta tra piccoli allevamenti e grandi greggi transumanti. Quasi 1200 allevamenti rientrano nella classe da 1 a 20 capi e sono gestiti per lo più da hobbisti, mentre sono poche decine le greggi con centinaia o migliaia di pecore, gestite invece da professionisti. Le malghe attive, in base ad un censimento condotto tra il 2019 e il 2020, sono 578, di cui il 65% ospita prevalentemente bovini, il 26% ovicaprini, il 4% bestiame misto e il 3% equini. Il 36% delle malghe è dotato di almeno un’opera di prevenzione a protezione del bestiame dai grandi carnivori. Si tratta di opere utilizzate prevalentemente per la stabulazione notturna del bestiame (86%), in particolare reti mobili elettrificate (81%). In 41 malghe (7% del totale) è inoltre presente almeno un cane da guardiania, nella maggior parte dei casi in combinazione con qualche tipo di recinzione (83%). La presenza del personale in malga è prevalentemente continuativa sia di giorno che di notte (73%), e nel 74% delle malghe è presente almeno una struttura abitativa adibita alla permanenza stabile del pastore. Nel 62% delle malghe, inoltre, è presente un ricovero fisso per il bestiame e il 78% è accessibile in auto, tramite strada asfaltata (15%), strada sterrata o pista forestale (63%). La superficie dei pascoli in Trentino è stimata intorno ai 50.000 ettari, di cui 40.000 effettivamente utilizzati (dato al 2017). Complessivamente, il bestiame presente in alpeggio ogni anno ammonta a circa 72.687 capi, perlopiù costituito da ovicaprini (63,5%), bovini (31%) ed equini (2,4%). Ciò detto, veniamo ai dati. In provincia di Trento, tra il 2013 e il 2022, si sono verificate 576 predazioni da lupo su domestico, con un totale di 2256 capi compromessi (inclusi i capi morti, feriti e dispersi). Le predazioni documentate seguono la tendenza di espansione della popolazione di lupi sul territorio, aumentando nel corso degli anni sia nel numero che nelle aree colpite. Il maggior numero di attacchi avviene nel mese di agosto e durante le ore notturne. Gli ovicaprini rappresentano la tipologia di bestiame più frequentemente coinvolta negli eventi di predazione registrati (64%), seguiti dai bovini (26%), di cui i giovani sotto i 15 mesi costituiscono la classe d’età maggiormente colpita (67% dei bovini predati). In media si tratta di circa 1,2 capi compromessi per evento di predazione per quanto riguarda i bovini e 5,4 capi per evento per gli ovicaprini. Gli animali da allevamento predati dal lupo ogni anno si aggirano intorno allo 0,6% del bestiame complessivo monticato (0,8% per ovicaprini ed equini, 0,1% per i bovini), dati piuttosto in linea, come abbiamo visto, con quanto accade in altri settori delle Alpi e in Europa in generale.
I DANNI INDIRETTI
Fin qui abbiamo riportato dati sui danni diretti, ovvero la pressione relativa, in termini percentuali, esercitata dalla predazione di lupo e orso (di orso ci siamo occupati meno per più motivi, tra i quali la difficoltà a trovare dati sovrapponibili tra un contesto e l’altro) sulle consistenze nette di ovicaprini e bovini su scala continentale, nazionale e provinciale. È tuttavia evidente come la presenza dei grandi carnivori possa provocare dei danni indiretti, influenzando il comportamento del bestiame, aumentando il livello di stress negli animali e modificando le loro abitudini di pascolo. Uno studio condotto in Francia ha dimostrato che le pecore esposte alla presenza di lupi mostrano una diminuzione del 20% dell’attività di alimentazione (Dupont et al., 2024). Allo stesso modo, una ricerca condotta in Svezia ha mostrato come le pecore tendano a spostarsi in aree più sicure e a cambiare i loro modelli di pascolo in risposta alla presenza di lupi (Linnel et al., 2021). Questi comportamenti possono influenzare la produttività degli allevamenti. Naturalmente sono molti gli autori che giustamente sottolineano anche l’impatto psicologico della presenza dei grandi carnivori sugli allevatori, un aspetto importante e non ancora esplorato a fondo ma non quantificabile in termini di impatto economico.
IL CONTESTO GLOBALE
Fatte queste premesse e adottato un approccio che prescinde da numeri assoluti, fuorvianti se l’obiettivo è quello di mettere a fuoco l’impatto economico sul settore zootecnico nel suo complesso, il quadro che ne esce è che le percentuali sono contenute: un dato oggettivo che però non tiene conto né del contesto generale di riferimento – economico, sociale, culturale – né del capitolo dei danni, e quindi dei costi indiretti. Così come non tiene conto, ma questo l’abbiamo già detto, dei costi delle misure di prevenzione. Sono tutti questi fattori insieme, infatti, che costituiscono quel complesso reticolo multifattoriale di cui parlavamo in apertura. L’altro dato oggettivo con cui è obbligatorio confrontarsi quando si parla di allevamento è che tra il 2001 e il 2021 il calo degli ovini in zona UE è stato del 20%, passando dai 70 milioni di capi di inizio millennio agli attuali 58 milioni (dati Eurostat 2023). Un declino strutturale iniziato in tutta Europa ben prima del ritorno in grande stile dei predatori e del lupo in particolare, che ha tutt’altre altre cause e che è destinato a continuare anche nei prossimi anni, e questo sia secondo i dati dell’Istituto di Servizi per il Mercato Agricolo Alimentare diffusi lo scorso anno (ISMEA “Tendenze e dinamiche recenti. Ovicaprini – maggio 2024”, pag.4), sia secondo i dati di Greenpeace (“La crisi degli agricoltori italiani ed europei, Ottobre 2024. “Come le aziende di piccole dimensioni sono spinte a produrre di più per rimanere in attività”).
La pressione predatoria insiste, in altre parole, su un comparto già reso fragile per ragioni diverse ed esposto a forti fluttuazioni. Ci sono infatti motivazioni congiunturali di geopolitica internazionale o di mercato che si riflettono sui costi di gestione e sulla redditività di comparto, così come ragioni legate al cambiamento dei modelli culturali, oppure legate a nuovi stili di alimentazione. Impossibile in questo contesto una disamina esaustiva di questi aspetti: alcune cose però possono essere messe utilmente a fuoco, perché a pagare il conto di questa estrema vulnerabilità di sistema rischiano di essere proprio i grandi carnivori.
Congiuntura internazionale: il conflitto russo-ucraino ha portato ad un’impennata del prezzo di gasolio e carburante e all’aumento del prezzo dei mangimi. Un grosso problema per il settore agroalimentare trentino che dipende fortemente dall’importazione di materie prime da Paesi come l’Ucraina e l’Ungheria, dalle quali provengono il 20-25% dei mangimi. Questi ultimi, a partire dal 2022, hanno subito rincari nell’ordine del 30-40%. Sul piano del mercato invece, l’Unione Europea ha concluso nel giugno 2022 e sottoscritto nel luglio 2023 un accordo di libero scambio con la Nuova Zelanda per l’importazione annuale di 38.000 tonnellate di carne ovina a basso costo, che si aggiungono alle 144.000 tonnellate già importate, creando una evidente concorrenza con le carni nostrane.
Stili di alimentazione e modelli culturali: secondo i dati sulla macellazione forniti dall’ISTAT a livello nazionale, dal 2006 al 2018 il contingente di ovicaprini macellati si è dimezzato passando dai 7 milioni di capi macellati nel 2006 ai meno di 3 milioni macellati nel 2018. Lo stesso accade anche all’estero. In Francia negli ultimi 20 anni il consumo di carne d’agnello è crollato del 50% ed è confinato alla popolazione adulta e anziana. Nelle classi più giovani, soprattutto urbane, il consumo è minimo e la tendenza pare difficilmente reversibile viste le nuove sensibilità in tema di benessere animale e di consumo di carne in generale. Il passo successivo – inevitabile, vista la situazione fin qui delineata – è chiedersi cosa faccia, quanto investa l’ente pubblico per arginare la crisi del settore. Tradotto: quanto investa l’ente pubblico per tenere in vita l’attività zootecnica in montagna in una realtà alpina come la nostra.
IL SOSTEGNO AL SETTORE
Diciamo subito che avere un quadro esaustivo del sostegno pubblico al settore in Trentino, è difficile per una serie di ragioni legate, per lo più, al carattere (dis)articolato dei sostegni stessi e a tempi e modalità di intervento differenziati da parte di più soggetti erogatori. Dunque, digressione numero due. Senza andare troppo lontano, un quadro più organico ce l’abbiamo per la provincia di Bolzano grazie al lavoro presentato nell’aprile del 2023 dall’IRE, l’Istituto per la Ricerca Economica della Camera di Commercio di Bolzano, sul futuro delle malghe altoatesine e dal titolo “Il futuro dell’alpicoltura in Alto Adige – Sfide e opportunità dal punto di vista delle aziende alpicole” (qui lasintesi).
Il dato più eclatante riguarda proprio il sostegno della mano pubblica. Vediamo. Nel 2021 le aziende alpicole (unità malga-alpeggio) altoatesine hanno realizzato un fatturato di 33,1 milioni di euro. Le sovvenzioni pubbliche ammontano però a 15 milioni di euro, il che significa che il 45,5% della ricchezza generata dal comparto deriva da risorse pubbliche a fondo perduto. Aperta parentesi. Qualcosa di simile accade anche in Francia, dove le sovvenzioni pubbliche nella filiera della carne ovina rappresentano il 52% del fatturato del settore e tra il 90 e il 140% dei risultati d’impresa, ovvero dell’economia reale in termini di incassi generati dalle singole aziende. Chiusa parentesi. Torniamo alle malghe altoatesine. Ora, considerato che le malghe monticate in Alto Adige sono 1500 gestite da 1400 aziende alpicole, per procedere dobbiamo capire quante di queste aziende si dedicano all’allevamento di ovini, perché è su quelle che si incentrano i danni da lupo. La risposta è 268, ovvero il 19,1% del totale. Dunque, facendo una proporzione secca rispetto alla torta dei 15 milioni, il comparto della zootecnia ovina dovrebbe assorbire 2.865.000 euro di fondi pubblici ripartiti, appunto su 268 aziende. Sappiamo inoltre che i capi ovini monticati nel 2022 erano 27.539, il che significa che per ogni capo portato in alpeggio, l’ente pubblico ha investito, nelle sue diverse voci, l’equivalente di 104 euro. Tanto? Poco? Vediamo. Prendiamo come riferimento le medie di prezzo dei capi battuti all’asta nel 2022 e nel 2023 in Alto Adige relativi alle tre razze ovine più diffuse: pecora alpina tirolese, pecora tirolese bruno-nera, pecora Jura per il 2022 e pecora alpina tirolese, pecora tirolese bruno-nera e pecora tipo Lamon nel 2023). La media del 2022 è stata di 218 euro (250+174+231) e di 293 euro nel 2023 (326+217+355), il che significa che la media ponderale nei due anni è stata di 255,5 euro per capo. Torniamo al quesito: è tanto? È poco? Significa semplicemente che considerato il volume di contribuzione e i prezzi di mercato correnti, si può ragionevolmente dire che ogni capo di pecora portato in alpeggio in Alto Adige, risulta già pagato con denaro pubblico in una percentuale pari al 40,8% del valore di mercato. L’altro dato rilevante è che l’attività zootecnica strettamente intesa (ossia la vendita di carne) genera solo il 25% della ricchezza prodotta dall’unità malga-alpeggio, quasi allo stesso livello della ricchezza generata dal comparto del servizio bar e ristorazione, che genera intorno al 20% del fatturato totale. Dal punto di vista dell’interesse collettivo, un’erogazione così robusta in termini di intervento pubblico, a fronte di una quota relativamente modesta di ricchezza legata alla filiera ovina, trova la propria ragion d’essere solo se il sistema dell’alpeggio abbraccia una visione più ampia della malga e dell’allevatore come fornitori di servizi ecosistemici, come in parte avviene già oggi. A questo punto, però, si tratta di definire con maggiore incisività cosa si intenda per “servizi ecosistemici”. quali siano le ricadute economiche, quali le condizioni di erogazione e quali gli obiettivi che si vogliono raggiungere in termini di razionalizzazione e professionalizzazione dell’attività di pascolo e di redditività della conduzione. In definitiva, una riflessione più complessiva sul sistema alpicolo e sul suo valore aggiunto – che, beninteso, non è solo economico – uscendo però dagli schematismi di un ruralismo d’antan. E, in tutto ciò, quale sia il margine di manovra per un rapporto più equilibrato di coesistenza tra zootecnia e grandi carnivori.
RIFLESSIONI FINALI SULL’EQUILIBRIO TRA ZOOTECNIA E GRANDI CARNIVORI
Concludiamo tornando al principio, quando ci chiedevamo se la predazione da grandi carnivori fosse un fattore decisivo di declino della zootecnia alpina. Muovendoci tra Bruxelles, Roma e Trento abbiamo constatato come in ambito UE le pecore predate dal lupo rappresentino una percentuale minima del comparto ovino totale (tra lo 0,07 e lo 0,04%). Nel contempo, abbiamo evidenziato come il tasso di predazione sugli ovini sia circa dieci volte superiore (0,8%) nelle zone di montagna dove il lupo è presente, come accade nelle Alpi francesi. Un valore comunque molto basso in assoluto, peraltro a fronte di densità di ovini davvero molto più elevate che in Trentino – Alto Adige. Per fare un ulteriore passo avanti, abbiamo paragonato il peso della mortalità da predazione rispetto alle altre cause di mortalità delle pecore, scoprendo che l’unico dato certo arriva dalla Svizzera, con percentuali di mortalità generale dovuta a condizioni di allevamento, clima e malattie, molto più alte dell’atteso e quasi doppie rispetto alle stime austriache e tedesche. Il tasso di predazione resta comunque proporzionalmente a livelli inferiori al 2%, mentre si attesta sullo 0,11% in Austria e sullo 0,47% in Germania. Ovviamente, il dato statistico, indubbiamente esiguo, non dà conto dell’impatto locale della predazione che – variando significativamente a seconda del contesto e delle misure di protezione adottate – può essere molto più elevato rispetto alla media. E proprio una realtà estremamente diversificata ci hanno restituito i dati nazionali che evidenziano una forte concentrazione delle perdite a scapito di un numero relativamente limitato di aziende, sia in ambito bovino, sia in ambito ovicaprino. Restringendo ulteriormente la scala, anche in Trentino l’incidenza della mortalità da lupo è in linea con quanto accade in altri settori delle Alpi (0,6% del bestiame complessivo monticato) e curiosamente solo un terzo delle malghe attive risulta dotato di almeno un’opera di prevenzione. Sempre nell’ottica di valutare il “peso” della predazione nel declino della zootecnia alpina, abbiamo scoperto che la pressione predatoria insiste su un comparto reso oggi fragile da motivazioni di natura geopolitica (il prezzo di carburanti e mangimi alle stelle), di mercato (la concorrenza delle carni del sud del mondo) e dal cambiamento dei modelli culturali e degli stili di alimentazione (il crollo del consumo di carne d’agnello). In un contesto così incerto, che sta già facendo i conti anche con le trasformazioni derivanti dai cambiamenti climatici, più che dare risposte appare necessario impostare delle riflessioni legate al senso che l’alpeggio – e i pascoli che ne derivano – riveste a livello di tutela della biodiversità, di valori estetici e ricadute turistiche. Riflessioni complessive sull’intero sistema alpicolo e sul suo valore aggiunto che possano chiarire il quadro di riferimento, consentendo all’opinione pubblica e di conseguenza al decisore politico di stabilire se, per esempio, il sostegno che le aziende alpicole ricevono a livello di contribuzione sia congruo o meno (in Alto Adige ogni pecora portata in alpeggio è già pagata con denaro pubblico in una percentuale pari al 40,8% del valore di mercato pur generando solo il 25% del reddito d’impresa) e come si inserisca nell’intera equazione il tema della coesistenza con i grandi carnivori che, volenti o nolenti, sono tornati.
Quest'articolo è stato pubblicato col titolo L’impatto dei grandi carnivori sulla zootecnia ne I nuovi fogli dell'orso del Parco naturale Adamello Brenta
