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«L'idea di sterilizzare gli orsi in Trentino è un'ipocrita supercazzola»

Ecco perché la proposta avanzata dal ministro Pichetto è «un’operazione priva di logica, ingannevolmente scientifica, che travolge e coinvolge l’interlocutore»
 |  Natura e biodiversità

Il ministro dell’Ambiente Pichetto Fratin a fine luglio ha chiesto ad Ispra di mettere nero su bianco, nel più breve tempo possibile, un piano di sterilizzazione degli orsi trentini. Forse arriverà a giorni, forse no, ma poco importa. E questo perché ci sono alcune valutazioni di fondo che, indipendentemente dai contenuti del Piano, consentono di mettere a fuoco con chiarezza tutti i limiti di una proposta del genere.

Non avendo precedenti a livello mondiale, difficile persino trovare un approccio lessicale che esprima compiutamente i contorni dell’operazione proposta dal ministro, una definizione tecnica adeguata. A conti fatti, forse la migliore è supercazzola. E dunque, più compiutamente, l’idea di sterilizzare gli orsi trentini è un’ipocrita supercazzola, ovvero un’operazione priva di logica, ingannevolmente scientifica, che travolge e coinvolge l’interlocutore. Che poi Ispra si presti a un giochetto del genere buttando a mare la propria credibilità, è un gran brutto segno.

Comunque sia, cerchiamo di spiegare perché un piano del genere è una follia. Anzi no, prima vediamo a chi può piacere. Sicuramente piacerà alle gattare parlamentari, sempre in prima linea con mamma orsa; ai veterinari compassionevoli a digiuno di ecologia delle specie, figure emergenti in questi tempi difficili; ai soliti talebani animalisti. Quelli per cui meglio zero orsi che ammazzare un orso. Quasi in sintonia con Fugatti, ma dall’altra sponda.

Venendo alle cose serie, domanda numero uno: sterilizzare con quale obiettivo? Nessuno, per ora, ha dato ancora una risposta a questa decisiva domanda. Sterilizzare le femmine aggressive per evitare che vadano in calore? O sterilizzare per contenere la popolazione? Sono due cose radicalmente diverse, entrambe con macroscopiche controindicazioni.

Piccolo passo indietro: ma qualcuno a Roma, a Trento, l’ha letto il Rapporto Ispra del maggio 2023 dal titolo: “La popolazione di orsi del Trentino: analisi demografica a supporto della valutazione delle possibili opzioni gestionali”? Pare proprio di no. Non certo il ministro. Bene, là dentro ci sono tutti gli elementi tecnici che rendono inapplicabile l’idea di un Piano di sterilizzazione, a meno di non procedere consapevolmente sulla rotta di un declino programmato della popolazione ursina delle Alpi Centrali, fino ad arrivare alla sua silenziosa estinzione. Ma dignitosa, ovvio. Che non faccia troppo chiasso e che non susciti troppe proteste.

In quel Rapporto Ispra si spiega molto bene, senza alcuna ambiguità, che “al fine di non incidere in maniera negativa sulla traiettoria di popolazione, è possibile ipotizzare la rimozione di un numero massimo di 2 femmine riproduttive l’anno, nell’ambito di un prelievo complessivo di massimo 8 capi”. Due femmine riproduttive. E stop. Già con 3 femmine le probabilità di imboccare la strada del declino/estinzione aumentano del 30%. Figuriamoci con 5, numero che in queste settimane è filtrato come possibile obiettivo del programma di sterilizzazione. È proprio questo che lo rende impraticabile.

Ricapitolando: per ridurre significativamente il rischio nelle interazioni uomo-orso, l’esperienza trentina insegna, è sulle femmine riproduttive che, eventualmente, si dovrebbe intervenire ma la soglia massima di intervento è di 2 l’anno. Punto. Altro che campagna di sterilizzazione. Ma ammettiamo pure che il ministro decida di procedere con due femmine l’anno, a priori, per salvarsi la faccia. Sarebbe un atto irresponsabile, a danno dei trentini e della loro sicurezza. Se, infatti, dopo aver sterilizzato 2 femmine riproduttive magari già note alle cronache per modesti precedenti, se ne presentasse una terza, non conosciuta, con comportamento aggressivo, non si potrebbe toglierla di mezzo. Un paradosso. Da ciò il cortocircuito legato al Piano di sterilizzazione. Al netto di tutto il resto. Ovvero: operazione estremamente invasiva, difficoltà tecniche enormi, costi esorbitanti, incognite di tutti i tipi. 

A questo si aggiungono le ripercussioni sul piano europeo in caso di parabola discendente del trend di popolazione ursina. Le indicazioni della commissione europea in conformità all’articolo 17 della Direttiva Habitat, stabiliscono infatti che una perdita annua dell’ 1% di popolazione (al di sotto della “popolazione di riferimento favorevole”) di una specie particolarmente protetta come l’orso durante il periodo di rendicontazione dello stato di conservazione delle specie e degli habitat, porterebbe quasi inevitabilmente all’apertura di una procedura di infrazione contro l’Italia. 

Chiuso il capitolo tecnico, a margine restano un altro paio di considerazioni da fare, di carattere più generale. La prima: sterilizzare un’orsa significa farla uscire dal circuito riproduttivo. Biologicamente parlando, è un’orsa morta, che non gioca più alcun ruolo nella conservazione della specie. Un animale senza alcun significato ecologico, un “dead bear walking”. Sterilizzarla e rimetterla in circolazione è una doppia assurdità: non svolge più alcun ruolo apprezzabile e bisogna comunque accettare il rischio residuo legato alla sua presenza. Come dire, tenersi solo il peggio senza alcun vantaggio.

La seconda, sottoprodotto della prima e sottilmente culturale: la perdita di “autenticità” della popolazione di orso delle Alpi Centrali. Ci si muove sul piano inclinato che ha come sbocco il parco zoo, ovvero animali vivi senza alcun valore aggiunto in termini di salvaguardia della biodiversità. Problema che, ovviamente, non tocca la galassia animalista, per sua natura incapace di comprendere la differenza tra un parco naturale e un parco zoo. Purché mamma orsa sia salva.

Conservazione in Trentino occidentale e nelle valli del Parco Adamello Brenta significa soprattutto strategie di gestione legate all’orso e percorsi praticabili di coesistenza con le attività umane e con la presenza antropica in generale. Occorre, dunque, che l’idea di cosa sia “un vero orso”, un orso autentico e dell’ambiente che lo ospita sia, in qualche modo, presente e guidata con l’obiettivo di facilitare il raggiungimento degli obiettivi gestionali individuati.

Un legame “autentico” con gli animali – e non è affatto necessario favorire incontri diretti per questo – può potenzialmente creare maggiore consapevolezza e, di conseguenza, aumentare la diffusione di buone pratiche di comportamento e l’accettazione di scelte gestionali, anche difficili e divisive, restando comunque all’interno di una cornice positiva di senso. Questo riguarda anche il capitolo “pericolosità”, che invece può essere ricondotto nell’alveo di un quadro normalizzato di relazioni col mondo selvatico. Va da sé che l’elemento cardine di una narrazione nel segno dell’autenticità è il “Riconoscimento dell’autonomia degli animali”.

Nello specifico autonomia di un animale, e soprattutto di un orso, significa promuovere l’idea di autonomia spaziale (l’animale può muoversi liberamente), di autonomia soggettiva (l’animale può esprimere la propria natura), di autonomia energetica (l’animale può agire per se stesso) e di autonomia sociale (l’animale può formare reti “sociali”). Sono questi quattro elementi che fanno di un orso un “orso vero”.

Un esempio: la capacità di riprodursi riflette la sua condizione soggettiva e sociale, la possibilità teorica di un incontro con un escursionista riflette le sue condizioni spaziali, mentre il potenziale di pericolosità riflette la sua condizione energetica. Fermo restando, ovviamente che questi tre elementi non riflettono necessariamente la condizione reale degli orsi quanto piuttosto il modo in cui chi frequenta la montagna, le percepisce.

Da ciò la domanda che rovescia il banco: l’accettazione di questa idea di “autenticità”, così radicalmente diversa dalla filosofia che accompagna il Piano di sterilizzazione, potrebbe giocare un ruolo positivo, importante, nella costruzione di un nuovo paradigma del rapporto uomo-orso nelle valli trentine? Potrebbe fungere da volano positivo in un’ottica di conservazione a lungo termine della specie e di abbassamento della soglia di rischio nelle interazioni uomo-orso? Probabilmente non lo sapremo mai.

Mauro Fattor

Laurea in Filosofia Teoretica all'Università Statale di Milano, studi di Filosofia della Scienza e Etologia all'Università di Vienna. Giornalista professionista dal 1990, già caporedattore nei quotidiani Finegil del Gruppo Espresso e del gruppo Athesia. Docente al master di comunicazione Fauna&Human Dimension dell'Università dell'Insubria - modulo Grandi Predatori e modulo Stampa Quotidiana. E' stato responsabile della comunicazione dell'ATIt. Scrive per National Geographic Italia e ha lavorato per Alp, Rivista della Montagna, Habitatonline e scritto testi per la Rai Radiotelevisione Italiana. Nel 2024 ha vinto il Premio Green Book per il miglior articolo giornalistico a tema ambientale. Nel 1998 ha vinto inoltre il Premio "Vittoria Sella" di Mountain Wilderness International e nel 2013 è stato premiato nella sezione saggistica del Premio Itas per la letteratura di montagna. Ha fatto parte della Commissione Centrale Tutela Ambiente Montano del Club Alpino Italiano e dei Comitati di gestione del Parco naturale dello Sciliar-Catinaccio, delle Vedrette di Ries, del Parco naturale del Monte Corno e del Parco Nazionale dello Stelvio, settore altoatesino. Attualmente è associato all'Unità Grandi Predatori dell'OFB, l'Ufficio francese della Biodiversità-Regione Occitania. Si occupa da trent'anni del rapporto tra ambiente, società e media con particolare riferimento ai grandi carnivori. Centinaia gli articoli prodotti a partire dalla fine degli anni Ottanta. Ha partecipato a progetti specifici di ricerca su lince e lontra con l'Università di Perugia e il Gruppo Lontra Italia.