La green economy è sinonimo di competitività, dall’automotive alla finanza
Con l’arrivo di Trump alla presidenza Usa, il prossimo lunedì, è facile pronosticare che si aprirà una nuova fase del negazionismo climatico a tutto favore delle fonti fossili, di cui The Donald è da sempre grande estimatore. Per la comunità internazionale non sarà facile mantenere dritta la barra della transizione ecologica, ma non è affatto scontato che per l’economia verde si apra un percorso in retromarcia. Per un semplice motivo: le tecnologie green, oltre che più sostenibili, sono anche più competitive.
Guardando agli indici di mercato, come fa oggi il Sole 24 Ore, emerge chiaramente che più si allunga l’orizzonte temporale osservato e più è alto il guadagno per i prodotti green. Non è una sorpresa, perché sostenibile per definizione significa capace di essere mantenuto nel tempo, ma è una realtà che emerge chiaramente guardando agli andamenti finanziari.
«L’indice S&P 500 Esg, da inizio 2020 a oggi, ha registrato una performance del +104% contro il +95% dell’omologo non Esg», evidenzia il Sole, dove per Esg s’intendono i fattori di responsabilità ambientale, sociale e di governance. «Ancor meglio – continua il quotidiano di Confindustria – nello stesso periodo ha fatto l’indice Msci World Esg rispetto a quello specializzato in armi (Msci World Defense): +72,7% contro +45,5% […] Come dimostrato da centinaia di studi universitari, più si allunga il periodo di osservazione, più pesa il fattore sostenibilità. Che poi è un contenimento dei rischi extrafinanziari».
Gli esempi sono molteplici: un’impresa più sostenibile riesce infatti a gestire meglio i costi di materie prime ed energia, a ottenere finanziamenti a migliori condizioni, risponde in modo proattivo ai rischi climatici come gli eventi meteo estremi, gode di un più alto livello reputazionale tra gli stakeholder e coltiva un elevato capitale umano. Tutti fattori decisivi per la redditività sul medio e lungo termine.
La sostenibilità è inoltre motore d’innovazione, come emerge da un’analisi non superficiale della crisi che ormai pervade la filiera automotive europea e italiana in particolare. Sono le stesse case automobilistiche a dichiarare che il problema non è il Green deal, ma semmai la carenza di politiche industriali a supporto; un fattore cui si aggiungono le crescenti disuguaglianze nel tessuto sociale, che rendono ormai difficile acquistare auto dal prezzo medio superiore a 30mila euro.
«La perdita di competitività dell’auto europea non è quindi dovuta all’effetto di una regolazione “ideologica” – argomenta nel merito sul Menabò di Etica ed economia Sergio De Nardis, oggi senior fellow di Luiss Institute for European Analysis and Policy e già direttore dell’analisi macroeconomica dell’Upb oltre che dirigente del Centro Studi Confindustria – Vi ha concorso quel che appare come un lock-in nella vecchia tecnologia, alimentato da scelte strategiche miopi, obiettivi di alta redditività nel breve periodo, sottovalutazione delle capacità innovative dei competitori e, anche, una regolazione a lungo non incisiva, preda degli interessi dei maggiori produttori (Pardi 2020). Ma quel che maggiormente conta, ancor più della crisi di un settore, è che tutto ciò ha procurato un danno ambientale, frenando il percorso di riduzione delle emissioni. Attribuire la crisi dell’auto a un difetto di neutralità tecnologica – prospettando l’esistenza di trade-off tra clima e salvaguardia del modo europeo di fare auto – non fa che prolungare questa nociva tendenza, con colpevole sottovalutazione di quel che la scienza del clima va dicendo da tempo sul riscaldamento climatico. Il futuro della decarbonizzazione dell’auto è, in tutte le aree, nell’elettrificazione (oltre alle dinamiche cinesi, è da ricordare che 12 stati Usa hanno fissato nel 2035 la fine dell’endotermico). Affermare che l’auto europea, con le sue interdipendenze produttive e la necessità di sbocchi nei mercati in rapida crescita, abbia ancora a disposizione un percorso diverso è, questo sì, ideologico. Il Green deal è essenziale per la mitigazione climatica secondo le indicazioni dell’accordo di Parigi; può essere anche funzionale al recupero di almeno parte del gap tecnologico accumulato, per le loro stesse scelte, dai produttori di auto europei».