Il ripristino dei pascoli offre ritorni economici fino a 35 dollari per ogni dollaro investito
Si è conclusa a Panama la 23ª sessione del Comitato per la revisione dell’implementazione della Convenzione (Cric23) delle Nazioni Unite per la lotta alla desertificazione (Unccd), un incontro che segna la metà del percorso fra le Cop di Riyadh (2024) e Ulaanbaatar (2026). Per cinque giorni (ossia dal 1° dicembre al 5 dicembre 2025), 197 Paesi hanno lavorato alacremente insieme a comunità scientifiche, società civile, popoli indigeni e giovani, al fine di fronteggiare la riduzione globale di suoli fertili, il degrado del territorio e la crescente vulnerabilità di molte comunità locali dovuta alla siccità.
Al centro dei lavori, il consolidamento dell’Action Agenda on land creata nell’ambito della Cop16, compresa la Riyadh Global Drought Resilience Partnership e la Drought Resilience Investment Facility, ritenuti strumenti molto importanti con l’obiettivo di mobilitare investimenti privati e bilaterali in azioni concrete sul terreno. Importanti progressi riguardano anche la possibile ripresa dei negoziati verso un quadro globale sulla siccità. In tale contesto, è doveroso sottolineare che i Paesi torneranno a discutere ufficialmente l’anno prossimo a Cop17 in Mongolia.
Intanto, per creare riforme con un impatto più elevato, l’executive secretary della Unccd, Yasmine Fouad, ha affermato che i “piani nazionali che restano sulla carta senza finanziamenti non bastano” poiché occorre urgentemente tradurre gli impegni politici in investimenti tangibili per protezione, ripristino e resilienza.
Nel corso dei lavori, è stato approvato il sistema di governance della Riyadh global drought resilience partnership, che punta a supportare 70 Paesi ad alto rischio. Sono inoltre avanzate le consultazioni guidate dalla Fao per trasformare in linee guida operative la decisione “storica” di Cop16 sul degrado dei suoli agricoli: un passaggio fondamentale, considerando che il 60% del degrado globale avviene proprio nelle terre coltivate.
Il Cric 23 ha ospitato per la prima volta l’Indigenous peoples caucus, che ha chiesto con forza il riconoscimento formale dei popoli indigeni come partecipanti attivi direttamente interessati, e non solo come mere parti avente uno status di osservatore permanente nei negoziati sull’ambiente. In più, questa è stata l’occasione per assumere un approccio comprensivo per chiedere l’accesso diretto ai finanziamenti e l’integrazione dei saperi ancestrali nelle valutazioni scientifiche. La Women’s Caucus ha spostato l’attenzione sugli impatti di genere delle tempeste di sabbia e polvere e sull’importanza delle donne indigene nelle pratiche di gestione sostenibile del territorio. Al contempo, il Youth Caucus ha ribadito la necessità di coinvolgere quanto più possibile le nuove generazioni nei processi decisionali. Per coinvolgere maggiormente il genere femminile, donne delegate da Paesi vulnerabili, spesso con economie emergenti, hanno partecipato a sessioni di formazione nell’ambito di negoziati con il supporto finanziario del Women delegates fund.
Una nuova analisi della Unccd mette in evidenza la particolare situazione di vulnerabilità che al giorno d’oggi caratterizza gli Small Island developing states (Sids): in questi territori, la quota di superfici colpite da almeno sei mesi di siccità estrema all’anno è salita dal 2% degli anni 60’ al 17% dell’ultimo decennio. Nel frattempo fattori a intensità crescente come urbanizzazione, agricoltura intensiva ed industria mineraria accrescono ulteriormente la pressione e il degrado dell’ambiente naturale.
Ma uno dei temi più forti emersi a Cric23 riguarda le cosiddette rangelands, ossia i vasti pascoli che coprono quasi la metà della superficie emersa del pianeta e che contribuiscono a garantire, tra le tante cose, un elevato livello di sicurezza alimentare, uno stoccaggio di carbonio adeguato insieme a regolazione idrica ed equilibrio climatico. Quantunque abbiano questo ruolo vitale, restano fra gli ecosistemi più trascurati e conseguentemente degradati del mondo.
Secondo i nuovi dati preliminari dell’Economics of land degradation initiative, forniti al Cric23 di Panama, il ripristino dei pascoli offre ritorni economici fino a 35 dollari per ogni dollaro investito. Il degrado, che oggi colpisce tra un quarto e la metà delle rangelands del mondo, tende a compromettere i cicli idrici, la produttività zootecnica e la mobilità dei pastori – già ostacolata dai cambiamenti climatici.
“I pascoli non sono terre marginali”, ha sottolineato il chief scientist della Unccd, Barron Joseph Orr, diversamente continua, questi devono essere considerati come veri e propri “asset ecologici ed economici strategici”. In questo contesto, la rangeland restoration si traduce, essenzialmente, in governance comunitaria, diritti fondiari sicuri, accesso all’acqua e sistemi di pascolamento basati sulla mobilità stagionale. Questo è un approccio che rafforza anche la resilienza di donne, giovani e popoli indigeni, per i quali il legame con questi territori è identitario prima ancora che economico.
Inoltre, il 2026 sarà l’Anno internazionale delle rangelands e dei pastoralisti (Iyrp), occasione che, secondo Enrique Michaud, co-presidente della Iyrp Global Alliance, consentirà di ampliare il dibattito concernente questi ecosistemi e coinvolgere i loro guardiani. In questo modo, la Unccd contribuirà con il Rangeland flagship initiative e con la Silk road campaign, un percorso di 6.000 km attraverso ben dieci Paesi che esporrà culture pastorali e paesaggi di prateria.
La Mongolia, che sarà il paese ospite della prossima Cop17, si vuole concentrare ampiamente su questo tema. “Quando i pascoli prosperano, prosperano anche le comunità”, ha ricordato Ariuntuya Dorjsuren, director general for International cooperation division of the ministry of Environment and climate change della Mongolia. Si può liberamente affermare che l’obiettivo del Paese è far sì che Cop17 sia scientificamente solida, inclusiva e orientata a soluzioni pratiche.
Dalle decisioni di Cop16 di Riad, sull’engagement del settore privato (Business4Land) e sulla protezione dei suoli agricoli, passando per la costruzione di partenariati e strumenti finanziari discussi a Panama, fino alle ambizioni di Cop 17, emerge chiaramente un filo conduttore, cioè a dire quello di mettere il suolo, e i territori che sostengono la vita, al centro dell’azione climatica globale.
Come ha sintetizzato Osama Faqeeha, deputy minister of Environment, water and agriculture of the Kingdom of Saudi Arabia, vicepresidente della Cop16: “Viviamo sulla terra e viviamo della terra, ma la trattiamo come spazzatura. È ora di riconoscerne il valore reale”.
Il prossimo appuntamento è, dunque, per agosto 2026, a Ulaanbaatar (capitale della Mongolia), dove la comunità internazionale sarà chiamata a trasformare finalmente impegni e parole in politiche, governance e investimenti capaci di invertire il degrado e costruire resilienza ecologica per milioni di persone, attraverso una Cop che dovrà essere scientificamente informata, inclusiva e orientata all’adozione di soluzioni pratiche. In conclusione, si auspica a una Cop 17 in grado di riflettere la diversità regionale, rafforzare la cooperazione tra i settori, riunire governi, scienziati, giovani, donne, popolazioni indigene, comunità locali e partners per promuovere i progressi tangibili verso il raggiungimento della neutralità del degrado del suolo e il contrasto fermo e strutturale alla siccità.