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Il rapporto Ipcc e le rassicurazioni (!) della Exxon...

 |  Crisi climatica e adattamento

Il cambiamento climatico sta influenzando tutti i continenti, ma non sta ancora influenzando tutte le Big Oil, infatti, mentre l’ Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate)  presentava il secondo capitolo del suo Fifth Assessment la più grande multinazionale petrolifera, Exxon Mobil, presentava una specie di contro-rapporto  nel quale sostiene che è «Altamente improbabile» che le conseguenze dell’aumento dei gas serra e del cambiamento climatico abbiano un effetto sul suo modello di business e che ostacolino la vendita di combustibili fossili per i prossimi decenni.

Nonostante questo il fatto che Exxon sia stato il primo grande produttore di petrolio e di gas a pubblicare un Carbon Asset Risk report è il segnale di una forte preoccupazione degli investitori su come le forze del  mercato e le normative ambientali potrebbero influenzare la produzione di alcune delle sue riserve. La multinazionale ha deciso di pubblicare il rapporto dopo che Arjuna Capital, una piattaforma di gestione patrimoniale sostenibile e As You Sow, una Ong che promuove lsa responsabilità ambientale delle imprese, hanno promosso una shareholder resolution sulla questione. Questi azionisti della Exxon sono preoccupati che le attività di Exxon Mobil varranno di meno quando nei prossimi anni entreranno in vigore restrizioni sui combustibili fossili ed il cambiamento climatico diventerà un problema sociale ancora più evidente e pericoloso.

Nel rapporto la Exxon minimizza e Ken Cohen, government affairs chief della Big Oil, in un’intervista all’Associated Press ammette: «Ne sappiamo abbastanza, sulla base della ricerca e della scienza, sul fatto che il rischio (del cambiamento climatico) è reale e si dovrebbero adottare opportune misure per affrontare tale rischio. Ma dato il ruolo fondamentale che l'energia svolge nella vita di tutti, quei passi devono essere fatti nel contesto delle altre realtà che abbiamo di fronte, compreso l’uscita dalla povertà di gran parte della popolazione mondiale». Da non crederci: Exxon pensa ai poveri…

Quindi per la multinazionale statunitense il rischio del cambiamento climatico è serio, ma per risolvere questo problema bisogna mettere insieme «La realtà della domanda globale di energia e di approvvigionamento e bilanciare le aspirazioni economiche dei consumatori». Questo bilanciamento significherebbe che le emissioni di CO2 da fonti energetiche raggiungerebbero il loro picco nel 2030 e poi inizierebbero a diminuire entro il 2040 grazie al calo di consumi prodotto dall’efficienza energetica e dai progressi nelle tecnologie low carbon e rinnovabili.

Natasha Lamb, direttrice equity research di Arjuna Capita, ha detto all’AP che  Mentre il rapporto è una pietra miliare, sono delusa dal fatto che non sia riuscito a spiegare che cosa accadrebbe se la società adottasse effettivamente politiche che portino ad emissioni nettamente inferiori, una cosa ampiamente conosciuta  come low-carbon standard».

Il punto è che Carbon Asset Risk della Exxon  dice che il mondo nel 2040 avrà bisogno del 35% di energia in più che nel  2010, e la Big Oil non crede entro questo periodo le nuove forme di energia saranno in grado di soppiantare gli idrocarburi tradizionali. Andrew Logan, direttore dell’Oil & Gas Program di Ceres, sottolinea che «Exxon Mobil ha riconosciuto i significativi rischi che il cambiamento climatico pone alla sua attività, la probabilità di un prezzo per il carbonio e il crescente slancio per affrontare il cambiamento climatico, ma definisce ancora improbabile uno scenario low carbon. Gli investitori non sono d'accordo, e continueranno a premere su Exxon Mobil perché allinei la sua pianificazione a questa realtà. Questa realtà è quella  raffigurato nel nuovo rapporto IPCC, che mette in guardia sul crollo dei sistemi alimentari, su nuovi e prolungati aumenti della povertà e sui maggiori rischi di conflitti violenti e di guerre civili. Questi allarmi vanno ben oltre le preoccupazioni degli investitori, e richiederebbero un impegno per affrontarli da parte della Exxon Mobil, non solo di una dichiarazione di riconoscimento».

Ma è lo stesso Wall Street Journal, che pure, rilanciando il nuovo mantra eco-scettico “Cilante change is good”, in un incredibile articolo di Matt Ridle a commento del  rapporto Ipcc  assicura che «Per diverse delle prossime e generazioni, l'effetto complessivo dei cambiamenti climatici sarà positivo per l'umanità e il pianeta» (ma lo fa basandosi su un altro rapporto non su quello Ipcc…), a mettere in dubbio l’ottimismo petrolifero di Exxon Mobil.

In un’analisi approfondita il Wall Street Journal affrontai problemi dello sfruttamento del più grande giacimento di petrolio scoperto negli ultimi 35 anni, quello di  Kashagan, nel Mar Caspio del Kazakistan, e ne viene fuori che le politiche climatiche ben lontane da essere l'unico ostacolo alla produzione di combustibili che le Big Oil dovranno affrontare nei primi decenni.

Il giacimento di Kashagan dovrebbe contenere fino a 35 miliardi di barili di petrolio, almeno un terzo dei quali  recuperabili, più o meno quanto le riserve petrolifere totali del Brasile:  13 miliardi, le seconde più grandi del Sudamerica dopo il Venezuela. Il Kazakistan, dopo la Russia è il più grosso produttore di petrolio ed ha le maggiori riserve tra le ex Repubbliche sovietiche. Una volta terminata la fase 2, Kashagan dovrebbe produrre 1,5 milioni di greggio al  giorno, l'equivalente della media giornaliera di tutte le società controllate dalla  Exxon nel 2013, oppure il consumo giornaliero di petrolio della Gran Bretagna.

Sembra tutto a posto, ma in realtà i lavori per mettere in produzione Kashagan scontano quasi 0 anni di ritardo e sono costati 30 miliardi di dollari in più del budget previsto.  La produzione era iniziata nel settembre 2013, ma due settimane dopo uno sversamento da una conduttura ha bloccato tutto, poi c’è stato un nuovo incidente ed ora il progetto è bloccato a tempo indeterminato con nessuna prospettiva di riprendere l’attività entro breve. Le cose sono andate così male che il Kazakistan ha citato in giudizio le multinazionali straniere, comprese  Exxon, Royal Dutch Shell, Total e l’italiana Eni per ritardi nei lavori e violazioni contrattuali.

Il Wall Street Journal  scrive che «Il progetto è stato afflitto da budget blowouts, passi falsi ingegneristici e di gestione delle controversie che si estendono dai danneggiamenti off-shore al top del governo ai leader delle corporations. Entrambe le parti si sono sforzate di capire cosa è andato storto. Si lamenta una struttura di gestione ingombrante. Gli executives petroliferi occidentali dicono che il governo kazako ha preso le decisioni ed imposto obblighi onerosi per l'impiego di lavoratori locali. I kazaki dicono che le companies hanno commesso degli errori che comprendono la sottovalutazione della sfida di gas corrosivi, l’aver fatto  progetti che richiedono una revisione frequente e non hanno fatto le saldature giuste».

Su Climate Progress Ari Phillis fa notare che «Con l'attuale crisi geopolitica nella regione che ruota attorno annessione della Crimea alla Russia, le prospettive su quello che accadrà al 3% cento delle riserve mondiali di petrolio in Kazakistan sono calate ulteriormente. Con l'Unione economica Eurasiatica (Uee)  che vincola Bielorussia, Russia e Kazakistan in programma per sostituire l'Unione doganale euroasiatica (Ecu) nel gennaio 2015, le eventuali sanzioni legate all'energia imposte alla  Russia porteranno a danni collaterali  nel settore energetico del Kazakistan. Non è difficile immaginare una spaccatura crescente in Kazakistan tra i fedelissimi della Russia e quelli più inclini verso l'Occidente, come è accaduto con quel che ha portato alla crisi in Ucraina».

Una tesi condivisa anche da Oil e Energy Insider.: «Nei giorni di quiescenza prima della debacle della Crimea, sembrava che il Kazakistan potesse avere tutto: dal ruolo di interlocutore est-ovest a futuro membro dell'Organizzazione mondiale del commercio. Ora, l'Ue potrebbe rivelarsi una pietra al collo del Kazakhstan».

Ma secondo il Wall Street Journal  il progetto di Kashagan potrebbe essere  ancora redditizio per qualche tempo, grazie al notevole aumento dei prezzi del petrolio negli ultimi 10 anni. Quando le multinazionali nel settembre annunciarono che il petrolio scorreva finalmente nelle tubazioni sul fondo del Mar Caspio gli executives  delle Big OIl  tirarono un sospiro di sollievo ed annunciarono un’epoca d’oro (nero) per il Kazakistan ed un roseo avvenire per il greggio mondiale. Qualche settimana dopo è saltato tutto e le Big Oil si sono trovate a fare i conti con il solito inquinamento ed i soliti incidenti che si susseguono dagli Usa alla Nigeria.  Tra una decina di anni, anche se Kashagan produrrà il greggio promesso a pieno regime, e se gli investitori continueranno ad ungere le incrostate ruote dell’economia petrolifera, alla fine le Big Oil, sgonfiato anche il boom del fracking, si troveranno ancora a fare i conti con l’esaurimento di risorse naturali che già ora sono sempre più costose, difficili e pericolose da estrarre, mentre il cambiamento climatico ha ormai divelto le porte ed i rischi economici e sociali del disastro ambientale sono sempre più evidenti».

Umberto Mazzantini

Scrive per greenreport.it, dove si occupa soprattutto di biodiversità e politica internazionale, e collabora con La Nuova Ecologia ed ElbaReport. Considerato uno dei maggiori esperti dell’ambiente dell’Arcipelago Toscano, è un punto di riferimento per i media per quanto riguarda la natura e le vicende delle isole toscane. E’ responsabile nazionale Isole Minori di Legambiente e responsabile Mare di Legambiente Toscana. Ex sommozzatore professionista ed ex boscaiolo, ha più volte ricoperto la carica di consigliere e componente della giunta esecutiva del Parco Nazionale dell’Arcipelago Toscano.