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La migliore difesa per l'Europa sta nell'unità: non solo in piazza, ma anche tra gli eserciti
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Dopo il disastroso incontro avvenuto nello Studio ovale della Casa bianca questo fine settimana tra Volodymyr Zelensky e Donald Trump, dove il presidente Usa e il suo vice Vance si sono scagliati in mondovisione contro il premier ucraino, a saltare è stato non solo l’accordo in pectore sulle materie prime critiche presenti nel sottosuolo del Paese aggredito dalla Russia, ma è ormai a rischio ogni supporto degli Stati Uniti nella guerra contro Vladimir Putin.
Le reazioni dal resto del mondo occidentale non si sono fatte attendere. In Italia il giornalista Michele Serra ha lanciato su la Repubblica un pubblico appello a scendere in piazza per un’Europa libera e unita, con zero bandiere di partito e solo vessilli Ue, per far passare chiaro un messaggio alla politica: c’è anche un’identità europea “dal basso”, che chiede di essere ascoltata. In poche ore sono migliaia le persone che hanno accolto con entusiasmo la proposta, che ha già trovato un suo spazio in calendario grazie ad un’ampissima adesione della società civile: la manifestazione si farà, sabato 15 marzo a Roma, in Piazza del Popolo alle ore 15. E anche greenreport.it non può che sottoscrivere con la propria adesione, perché non c’è futuro – men che meno sostenibile – per il Vecchio continente se non in seno a un’Unione europea più coesa, avvicinandoci al traguardo degli Stati Uniti d’Europa.
Mentre la società civile chiede maggiore coesione all’Europa, i leader europei puntano alla difesa militare come collante. Subito dopo la debacle dello Studio ovale, il premier britannico Keir Starmer ha organizzato un vertice a Londra cui hanno partecipato (oltre a Zelensky) molti tra i principali leader europei insieme ai loro alleati: in prima fila il presidente francese Emmanuel Macron, ma anche il cancelliere tedesco uscente Olaf Scholz, la premier Giorgia Meloni, il primo ministro del Canada Justin Trudeau, il ministro degli Esteri turco Hakan Fidan.
L’esito del vertice sta nella volontà di predisporre un piano di pace a guida franco-britannica, da sottoporre poi al vaglio di Trump, che possa fornire all’Ucraina le garanzie di sicurezza di cui ha bisogno contro l’aggressore russo: Francia e Gran Bretagna sono i candidati europei naturali per guidare questo sforzo, in qualità di membri permanenti del Consiglio di sicurezza dell’Onu e per la deterrenza nucleare che possono mettere in campo, e propongono di porsi alla testa di una coalizione di Paesi “volenterosi” (ancora da individuare) per far rispettare il futuribile accordo di pace con la Russia, anche portando a quel punto proprie truppe sul terreno ucraino.
A sottendere l’intero dibattito europeo sulla pace, è oggi la volontà di marciare rapidamente verso un riarmo del Vecchio continente – a fronte della sempre più traballante difesa militare finora garantita dagli Usa – da finanziarsi con un contestuale aumento della spesa pubblica. Si tratta di un passo da non compiere alla leggera, viste anche le cifre in gioco.
Il presidente Macron parla dell’urgenza di aumentare l’obiettivo di spesa dei Paesi europei sulla difesa al 3-3,5% dei rispettivi Pil, ben oltre l’attuale livello raccomandato dalla Nato, ovvero il 2%. L’Italia è tra i Paesi col livello di spesa più basso, pari ad oggi all’1,57% del Pil, e in qualsiasi scenario di disimpegno statunitense è verosimile che il nostro Paese non possa sottrarsi a investire di più in difesa. Ma arrivare anche solo al 3% del Pil significherebbe stanziare annualmente circa ulteriori 35 miliardi di euro, ovvero più di un’intera Finanziaria.
È dunque indispensabile mettere in campo, a livello nazionale quanto europeo, un lavoro di analisi improntato a razionalità ed efficienza per capire quanto effettivamente è necessario ampliare la spesa in difesa militare, senza cadere nella trappola del bellicismo. L’Osservatorio sui conti pubblici si è portato avanti, mostrando che la spesa militare europea è già ampiamente superiore a quella russa: del 19% se limitiamo il perimetro d’analisi ai soli Stati membri dell’Ue, del 56% contano anche gli altri membri Nato in Europa (aggiungendo dunque, in particolare, Regno Unito, Norvegia e Turchia).
«Tuttavia – evidenzia nel merito l’Osservatorio – è prioritario risolvere almeno due problemi che riducono l’efficienza della spesa militare nell’Ue. Il primo è l’inadeguato coordinamento tra le forze armate dei 27 Paesi membri. Il secondo è che, in gran parte dei Paesi Ue, la spesa militare è sbilanciata verso quella per il personale rispetto agli investimenti in armamenti e le spese di esercizio».
Prima di varare spese multimiliardarie in difesa, occorre dunque efficientare e ri-orientare gli investimenti attuali, e soprattutto migliorare rapidamente il coordinamento tra le forze militari dei vari Paesi europei per arrivare al più presto a una difesa comune. Nel merito l’analisi congiunta messa in campo dal think tank Bruegel insieme al tedesco Kiel Institute for the world economy è molto chiara: «L'Europa si trova di fronte a una scelta, o aumentare significativamente il numero delle truppe di oltre 300.000 unità per compensare la natura frammentata degli eserciti nazionali, o trovare modi per migliorare rapidamente il coordinamento militare».
Nonostante quel che ne pensa il ministro italiano per la Difesa, Guido Crosetto, secondo il quale i Trattati europei non prevedono la possibilità di arrivare a una difesa comune europea, è rassicurante sapere che è vero il contrario: come spiega Roberto Castaldi – docente di Governance dell’Unione europea e co-fondatore della spin-off della Sant’Anna di Pisa CesUe (Centro studi, formazione, comunicazione e progettazione sull’Unione europea e la Global Governance) – l’art 42.2 del Trattato sull’Unione europea prevede già che il Consiglio europeo all’unanimità possa decidere di creare una difesa europea; non solo, il Protocollo n.10 sulla Cooperazione strutturata permanente sulla difesa (Pesco) permette anche a un gruppo di Stati “volenterosi” di attivare una cooperazione strutturata permanente sulla difesa, che deve essere autorizzata dal Consiglio a maggioranza qualificata.
Ben venga dunque una piazza per l’Europa, ma un passo avanti verso gli Stati Uniti d’Europa è oggi richiesto con grande rapidità anche ai leader politici. Perché di fronte all’avanzata della minaccia russa e all’indietreggiamento dello storico alleato statunitense, è impossibile oggi pensare che l’Europa non debba investire di più in difesa. Ma è cruciale trovare un punto di equilibrio tra questa esigenza e le altre, enormi, sotto il profilo sociale e ambientale. Tenendo sempre bene a mente l’orizzonte dettato dal grande economista Nicholas Georgescu-Roegen, ispiratore della moderna economia ecologica, che ha lasciato in eredità al mondo un Programma bioeconomico minimale, fondato sull’idea di ridurre gli sprechi e di usare le risorse scarse a nostra disposizione per godersi le comodità prodotte dallo sviluppo tecnologico. Un programma in otto “semplici” punti, in vetta ai quali spicca un’esortazione categorica: «La produzione di tutti i mezzi bellici, non solo la guerra, dovrebbe essere completamente proibita».
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