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È la crescita di disuguaglianze e inflazione ad aver portato Trump alla vittoria: una lezione per tutte le democrazie

Lavoro precario, fratture generazionali e crisi climatica stanno schiacciando la classe media, se l’Ue vuole sopravvivere deve mettere in campo una risposta sostenibile
 |  Approfondimenti

Le desolanti azioni di Donald Trump per smantellare l’eredità di Biden sul clima si stanno facendo sentire alla Cop29 in Azerbaijan, anche se il tycoon non sarà presente. Ma a un oceano e a un continente di distanza, Trump sta preparando anche la sua politica commerciale, riassunta nella formula “America First”.  Ha promesso di punire amici e nemici, in primis la Cina, con dazi generalizzati, nonostante gli avvertimenti degli economisti sull’impatto negativo delle tariffe su crescita e consumatori.

Intanto le analisi dei flussi elettorali ci indicano due fattori che sembrano aver alimentato il voto degli americani. In primo luogo, la convinzione che l’economia Usa non abbia fatto abbastanza per ridurre le disuguaglianze. Nel 2022 l’indice di Gini, che misura le differenze tra i redditi in un Paese, era perfino più alto rispetto ai primi anni Dieci. Inoltre, la crescente inflazione e la politica monetaria adottata per contrastarla pesano su un Paese in cui il debito complessivo delle famiglie ha raggiunto i 17.800 miliardi di dollari (fonte Federal Reserve). Gli ultimi anni sono stati particolarmente difficili, soprattutto per la classe media.

Il problema, tuttavia, non è solo americano. Per molti anni, l’appartenenza alla classe media ha significato la sicurezza di vivere in una casa confortevole e di potersi permettere uno stile di vita gratificante, grazie a un lavoro stabile e opportunità di ascesa sociale. Ora, però, sempre più segnali rivelano che questi punti fermi delle nostre democrazie non sono stabili come in passato. Il lavoro è più precario, il costo della vita più alto, le fratture generazionali più ampie, e la parità di genere ancora lontana.

Nei giorni scorsi l’ASviS ha partecipato con un proprio evento e con uno stand al Forum mondiale Ocse sul benessere. Il Forum è tornato in Italia, a Roma, dopo vent’anni: il primo si tenne nel 2004 a Palermo, promosso dall’allora Chief statistician dell’Ocse Enrico Giovannini, oggi direttore scientifico dell’Alleanza. Ebbene, uno dei principali argomenti di discussione tra i delegati presenti all’Auditorium è stato il nuovo rapporto “How’s life” dell’Ocse, che si apre così:

Le famiglie della classe media si sentono abbandonate e hanno messo in dubbio i benefici della globalizzazione economica. In molti Paesi Ocse, i redditi medi sono cresciuti meno della media e in alcuni non sono cresciuti affatto. La tecnologia ha automatizzato diversi lavori di media qualificazione che qualche decennio fa venivano svolti da lavoratori della classe media. I costi di alcuni beni e servizi come l’alloggio sono aumentati più rapidamente dei guadagni e dell’inflazione complessiva.

Ma in che modo i redditi medi si stanno svuotando? L’Ocse calcola che nei Paesi la quota di persone a reddito medio, definite come famiglie che guadagnano tra il 75% e il 20% del reddito nazionale mediano, sia scesa dal 64% al 61% tra la metà degli anni Ottanta e la metà degli anni 2010. Anche l'influenza economica della classe media e il suo ruolo di “centro di gravità economica”, rileva lo studio, si sono indeboliti: il reddito aggregato di tutte le famiglie a reddito medio era quattro volte il reddito aggregato delle famiglie ad alto reddito tre decenni fa; oggi, questo rapporto è inferiore a tre.

Come hanno reagito le classi politiche di fronte a queste dinamiche? Con rare eccezioni, non hanno reagito affatto. Hanno mancato l’occasione di promuovere una crescita che, oltre al Pil, guardasse ad altri fattori: la sostenibilità, l’uguaglianza, l’inclusione sociale. Le odierne pulsioni nazionalistiche, il senso di amarezza e abbandono presenti in alcune aree interne, anche nei grandi Paesi, sono una reazione a una globalizzazione mal governata. Negli Stati Uniti, ad esempio, il rifiuto della globalizzazione è considerato dagli esperti come uno dei cambiamenti più significativi nella politica americana dell’ultimo decennio. Basta guardare ai sondaggi: gli americani sono perfino più scettici verso la globalizzazione in generale che sulla concorrenza della Cina. Risultati simili si osservano indipendentemente da regione, fascia d’età, classe sociale, genere e orientamento politico.

Tra tutte le analisi pubblicate in queste settimane, prendiamo quella di Daron Acemoglu, premio Nobel per l’economia nel 2024, che ha scritto sul New York Times:

L'era della globalizzazione rapida e in gran parte sfrenata che seguì il crollo dell'Unione Sovietica è finita. Ha favorito i consumatori occidentali e le multinazionali, che hanno avuto accesso a manodopera a basso costo all'estero. I lavoratori, non tanto.

Acemoglu si sofferma anche sugli impatti dell’innovazione, affermando che negli Stati Uniti gli investimenti nei robot sono aumentati rapidamente, ma non sono stati accompagnati da adeguati investimenti nelle persone. Questo crea, tra l’altro, un divario di competenze, poiché la forza lavoro non è ancora pronta ad assumersi nuovi compiti avanzati e specializzati. Un tema assai attuale, soprattutto per la realizzazione di una transizione ecologica “giusta”, come emerso in un evento alla fiera Ecomondo, a cui hanno partecipato l’ASviS e il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara.

Guardando ai successi della globalizzazione, il pensiero va ai Paesi asiatici emergenti, come Cina e India, che hanno sfruttato la liberalizzazione commerciale per rilanciare le loro economie e portare una larga parte della popolazione fuori dalla povertà estrema. I Paesi emergenti sono diventati attori chiave nelle supply chain globali, in particolare nella produzione e nei servizi. Questo ha migliorato la qualità della vita per milioni di persone, riducendo drasticamente la povertà estrema: tra il 1990 e il 2015 oltre un miliardo di persone è uscito da questa condizione.

Non tutto però è andato per il verso giusto, e la riduzione della povertà ha subito un rallentamento fino a raggiungere un punto morto. Il periodo 2020-2030, avverte la Banca mondiale, sembra destinato a essere “un decennio perduto”: l’8,5% della popolazione mondiale, quasi 700 milioni di persone, vive oggi con meno di 2,15 dollari al giorno, la soglia di povertà estrema per i Paesi a basso reddito. E il cambiamento climatico rappresenta un rischio fondamentale per la riduzione della povertà e delle disuguaglianze, poiché quasi una persona su cinque nel mondo rischia di subire uno shock meteorologico grave nel corso della propria vita.

Per il vicedirettore della Fao Maurizio Martina, intervenuto su Avvenire, Il discorso è complesso ma non si può eludere e riguarda anche le politiche protezionistiche dei Paesi più forti e il ruolo assunto dai Paesi a basso reddito, diventati sempre più importatori. I mercati hanno bisogno di regole più forti e giuste. Certamente, non hanno bisogno di nuovi istinti protezionistici, che hanno sempre fatto pagare il prezzo più caro proprio agli anelli fragili delle catene produttive.

Tutto questo è motivo di preoccupazione per l’Europa. Emmanuel Macron e Mario Draghi hanno lanciato un avvertimento la scorsa settimana a Parigi, insistendo sulla necessità che l’Ue si prepari rapidamente per l’imminente secondo round di una guerra commerciale con gli Stati Uniti. Draghi, che a settembre ha presentato le sue raccomandazioni su come salvare l’economia europea da un lento declino, ha affermato che l’Europa deve ora “lavorare più intensamente di quanto avremmo potuto pianificare di fare prima”. Nei mesi scorsi anche Enrico Letta aveva presentato le sue proposte sul mercato unico europeo. Come ha affermato l’ex premier durante la presentazione del Rapporto ASviS 2024,

“È il tentativo di dare un messaggio forte, perché su molti temi l’Europa è solo un'espressione geografica: la moneta è integrata, ma il mercato finanziario e quello delle telecomunicazioni no. Tutto questo è un danno tremendo per l'Europa (…) Nel Rapporto cerco di fare un ragionamento non ideologico: la bandiera europea non affossa le bandiere nazionali, le due bandiere devono coesistere”.

L’Europa ha avuto le sue colpe in questi anni: a volte pensa e agisce come un continente, ma troppo spesso si comporta in realtà come un gruppo di piccole nazioni frammentate. Non ha mai completato l’unione dei mercati dei capitali, che consentirebbe a più start-up tecnologiche europee di ottenere fondi. Sta perdendo ulteriore terreno rispetto agli Stati Uniti nei settori tecnologici, a causa di investimenti bassi e normative frammentarie. Fatica, inoltre, a trovare un’intesa sulla questione delle riforme interne, a partire dall’emissione di nuovo debito comune per finanziare le sue esigenze industriali.

È chiaro che concentrarsi esclusivamente sulla protezione senza coltivare opportunità di apertura del mercato e partnership non è la soluzione. Durante la sua visita in Cina dove ha incontrato Xi Jinping, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, ha pronunciato parole chiare sull’importanza di un mercato mondiale più libero, sul rilancio delle relazioni internazionali e sul coinvolgimento del Sud globale:

“Ogni messaggio che induce alla collaborazione politica, economica e commerciale è un modo per rafforzare la pace. Perché mercati aperti, collaborazione commerciale significano interessi comuni che vengono coltivati (…) Nessuno in Europa, men che meno l’Italia, immagina una stagione di protezionismo”.

Il ritorno di Trump, se ce ne fosse ancora bisogno, chiede agli Stati europei di raccogliere queste sfide. Un processo che è già in moto, ma che è ancora troppo lento.

a cura di Andrea De Tommasi

ASviS

L’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), nata il 3 febbraio del 2016 su iniziativa della Fondazione Unipolis e dell’Università di Roma “Tor Vergata”, è una rete di oltre 300 soggetti impegnati per l’attuazione dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite e dei suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs). L’Alleanza si pone come obiettivi di: - favorire lo sviluppo di una cultura della sostenibilità a tutti i livelli, orientando in tal senso gli stili di vita, i sistemi di convivenza civile e i modelli di produzione e di consumo; - analizzare le implicazioni e le opportunità per l’Italia legate all’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile; - contribuire alla definizione di strategie nazionali e territoriali per il conseguimento degli SDGs e alla realizzazione di un sistema di monitoraggio dei progressi a livello nazionale e territoriale verso gli SDGs. L’Associazione opera secondo un modello di lavoro innovativo e inclusivo in grado di stimolare la coesione e il coinvolgimento, l’apertura alla diversità e la pluralità di visioni, al fine di promuovere il cambiamento sociale e culturale necessario.