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Pneumatici fuori uso, un settore da gestire ripensando la responsabilità dei produttori

Negli ultimi 5 anni più di 100 mila tonnellate sono finite nei centri di raccolta comunali: costo medio per il ritiro 190 euro a tonnellata, sostenuti dalla Tari, cioè dalla collettività
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La gestione del fine vita degli pneumatici (in sigla Pfu, acronimo di pneumatici fuori uso) è in crisi da tempo. Per capire quanto, basta leggere il rapporto realizzato dal laboratorio Ref ricerche. Cosa accada agli pneumatici una volta finito il loro utilizzo, come vengano smaltiti o valorizzati è una questione tutt’altro che marginale osservando i numeri del settore automobilistico e considerato che l’Italia è la nazione europea con il maggior numero di auto in rapporto al numero di abitanti: 663 ogni 1.000 abitanti (dati Istat del 2019). I gommisti, ultimo anello della catena che dal produttore arriva agli automobilisti che sostituiscono gli pneumatici, da diversi anni sono costretti a convivere con accumuli di Pfu presso i propri magazzini, mentre Comuni e gestori della raccolta dei rifiuti si trovano a fare da paracadute a un rifiuto, appunto lo pneumatico fuori uso, che ai sensi della normativa ambientale è classificato come rifiuto speciale, ergo originato esclusivamente da attività produttive, che dovrebbe essere di responsabilità del produttore e che invece finisce nel perimetro del servizio pubblico. Cumuli di Pfu, infatti, si materializzano sempre più frequentemente presso i centri di raccolta comunale: nel solo 2021 ne sono stati conteggiati circa 18 mila tonnellate, più di 100 mila tonnellate negli ultimi 5 anni, con costi che vanno a gravare sulla tariffa rifiuti e, quindi, in ultima analisi sui cittadini. 

Per alleviare la crisi degli accumuli presso i gommisti, il ministero dell’Ambiente e della sicurezza energetica (Mase) ha più volte stabilito un invito alla raccolta e gestione di quantità aggiuntive di Pfu incrementando gli obiettivi a carico dei consorzi Epr e dei sistemi individuali (con immesso superiore alle 200 tonnellate) tra il +15 e il +20%. 

Proprio per comprendere le ragioni di queste difficoltà il think tank di Ref Ricerche ha realizzato il rapporto dal titolo “Il fine vita degli pneumatici: una responsabilità del produttore da ripensare”, presentato oggi a Ecomondo nel corso di un convegno ospitato nello stand di Utilitalia e interamente consultabile online

«Negli ultimi 5 anni più di 100 mila tonnellate di pneumatici fuori uso sono stati conferiti nei centri di raccolta comunale. Questa è una anomalia perché la responsabilità di gestire il fine vita degli pneumatici è dei produttori. In questo modo si scaricano i costi sugli operatori della filiera, sui Comuni e in ultima analisi sui cittadini, chiamati a sostenere due volte i costi di gestione, come acquirenti dello pneumatico e nella tariffa del servizio pubblico di gestione dei rifiuti», ha commentato Donato Berardi, direttore del think tank di Ref Ricerche. 

«Considerando che il costo medio per il ritiro dei Pfu dai centri di raccolta si aggira intorno a 190 euro a tonnellata – ha spiegato il presidente di Utilitalia, Filippo Brandolini – ciò significa che, solo negli ultimi 6 anni, circa 19 milioni di euro di costi di gestione dei PFU sono stati sostenuti dalla TARI. Quindi dalla collettività invece che dai sistemi collettivi di responsabilità estesa del produttore che, è bene evidenziarlo, hanno svolto e continuano a svolgere un ruolo fondamentale per la corretta gestione di questo rifiuto. Ma è evidente che questa stortura vada in qualche modo risolta».  

A essere messo in discussione è il modello di gestione del fine vita degli pneumatici fuori uso in vigore dal 2011 (Dm 82), in applicazione del principio comunitario del «chi-inquina-paga». Sistema che impone a produttori e importatori «l’obbligo di provvedere, singolarmente o in forma associata e con periodicità almeno annuale, alla gestione di quantitativi di pneumatici fuori uso (Pfu) pari a quelli dai medesimi immessi sul mercato e destinati alla vendita sul territorio nazionale». Tale obbligo può essere assolto sia in forma individuale che in forma collettiva, ovvero tramite il ricorso a società consortili senza scopo di lucro. 

Sebbene l’entrata in vigore di questo sistema abbia inizialmente razionalizzato il settore, garantendo una raccolta più capillare, limitando notevolmente gli abbandoni nell’ambiente, incentivando anche modalità di valorizzazione prima sconosciute, progressivamente si sono manifestate delle inefficienze. 

Il primo problema è il commercio elettronico di pneumatici nuovi non coperti da contributo ambientale di solito per il tramite di piattaforme on line, canale di vendita che ha conosciuto negli anni una penetrazione crescente nel mercato. Un migliore controllo su questi canali e sull’effettiva corresponsione del contributo ambientale aiuterebbe a definire target di raccolta e immesso al consumo più veritieri e a raccogliere le risorse necessarie alla loro gestione. 

Emerge quindi una seconda criticità che origina dal ruolo dei soggetti che hanno obblighi di responsabilità: produttori o soggetti da loro delegati. Il mandato imposto dal legislatore a carico di produttori/importatori di pneumatici è di raccogliere i Pfu in proporzione alla quantità venduta sul mercato. L’obbligo di raccolta si estende su tutto il territorio nazionale (sulla base di percentuali minime di raccolta declinate su macroaree stabilite dal nuovo Dm 182/2019) seguendo esclusivamente l’ordine di chiamata per il ritiro. Una pratica diffusa, per esempio, è quella di accordare alle officine che operano anche nella vendita il ritiro dei Pfu sulla base del quantitativo acquistato. Un comportamento che pone un tema di compressione anomala della concorrenza tra i gestori degli schemi di responsabilità estesa. 

Mancano anche criteri efficaci per quantificare il contributo ambientale. L’obiettivo di mantenere basso il contributo ambientale può infatti indurre a preferire il recupero energetico al riciclo, in quanto più economico, in contrasto con ciò che sarebbe preferibile dal punto di vista dell’ambiente. Ancora oggi il recupero energetico rappresenta la destinazione preferibile per più della metà dei Pfu raccolti, con percentuali che sulla base dei principali gestori collettivi si collocano oltre il 50% - di molto superiori ai numeri ufficiali - mentre poco si conosce delle performance dei gestori individuali. In futuro, quindi, bisognerà trovare soluzioni in grado di passare da meri obiettivi di intercettazione a target di prevenzione, riutilizzo e riciclaggio. 

Un’altra criticità nasce dal disallineamento tra target di raccolta fissati a inizio anno (rispetto all’immesso al mercato dell’anno precedente) ed entrate da contributo ambientale incassate sulla base degli pneumatici venduti. È facile comprendere come il disallineamento tra i costi da sostenere (legati al target dell’anno precedente) e i ricavi dell’anno corrente (derivanti dalle vendite degli pneumatici nuovi) generi delle incoerenze che intralciano l’azione degli operatori della raccolta. Infatti, operatori con vendite in crescita nell’anno in corso si trovano a incassare più risorse rispetto ai target di intercettazione più modesti fissati l’anno precedente, di converso, operatori con vendite in forte diminuzione possono essere chiamati a sostenere costi non sostenibili a fronte della riduzione delle vendite. 

Redazione Greenreport

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