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Senza una scuola. Non c’è futuro sostenibile per un’Italia dai docenti fantasma

Il fenomeno del precariato nell’ambito educativo sta assumendo forme sempre più gravi
 |  Approfondimenti

“Evviva! Le nostre docenti sono di ruolo!”. Con queste esultanze tra genitori è iniziato l’anno scolastico, un mese fa, fuori dalla scuola delle mie figlie. Sì, perché ormai poter contare su docenti di ruolo è una rarità e, per noi genitori, averli è sinonimo di continuità della didattica. Significa che tuo figlio o tua figlia avrà un punto di riferimento nel corso degli anni, una metodologia e un programma didattico di lungo periodo.

Non stupiscono dunque i festeggiamenti genitoriali, quando dalla maggioranza delle altre classi si sente di docenti che cambiano e ricambiano, con conseguenti rischi di rallentamento del percorso scolastico. E al momento della presentazione del corpo docente, ci sono insegnanti, soprattutto quelli, così importanti, di sostegno, che già annunciano “non so se rimarrò con voi, non sono stata ancora assegnata” o, peggio, genitori che non provano neanche a imparare il nome di quelli non di ruolo perché “tanto cambieranno”.

Eppure, forse saranno docenti che con la loro passione, la loro preparazione e la propensione all’innovazione lasceranno, per quanto breve sia stato il loro rapporto, un segno in tuo figlio. Ma per il sistema italiano e per la società sono insegnanti a metà, docenti fantasma. Persone che non vengono messe nelle condizioni di esercitare appieno la propria professione, con continuità e il giusto riconoscimento, e che, a causa di ciò, rischiano di perdere valore anche agli occhi dei genitori, obbligati in certi casi a dover gestire il dispiacere degli alunni, in aggiunta al proprio, al momento della separazione, senza poterne spiegare la ragione (“sai il ministero …, o forse il provveditorato …, o forse la scuola …, insomma qualcuno ha deciso che doveva andare via”, o qualcosa di simile).

Il fenomeno del precariato nell’ambito educativo ce lo trasciniamo da molto tempo ma, nonostante gli annunci dei vari ministri, sta assumendo negli ultimi anni forme sempre più gravi e in queste settimane è tornato al centro di dibattiti pubblici, impegni politici e manifestazioni. Anche se la questione è estremamente ampia e non sarà possibile affrontarla tutta in questa sede, vorrei riflettere brevemente soprattutto su tre punti: dignità del lavoro, difficoltà di accesso dei giovani all’insegnamento e qualità della didattica.

DIGNITÀ DEL LAVORO. Il 3 ottobre la Commissione europea ha deferito l'Italia alla Corte di giustizia dell’Ue per non aver posto fine all'uso abusivo di contratti a tempo determinato e alle condizioni di lavoro discriminatorie, non avendo predisposto un adeguato quadro normativo atto a prevenire e rispondere a questi fenomeni, nonostante la prima segnalazione fosse del 2019. La legislazione italiana, infatti, non prevede per i precari la progressione di stipendio basata sull’anzianità di servizio, riconosciuta invece ai docenti assunti a tempo indeterminato. In sostanza, lo stipendio di un docente precario rimane sempre quello iniziale, una disparità di trattamento contraria al diritto comunitario.

Tra le discriminazioni si pensi anche semplicemente alla “Carta docente” (500 euro da spendere in libri, corsi ed eventi culturali), che – è notizia delle ultime ore – sarà riattivata a partire dal 14 ottobre, ma potrà essere utilizzata esclusivamente dai docenti di ruolo, mentre i precari dovranno pagarsi tutto di tasca propria. Peccato che, in Italia, gli insegnanti restano precari in media fino ai 45 anni, alcuni fino alla pensione.

L’emergenza degli ultimi anni è strettamente legata al caos dei concorsi, tra bandi prioritari per ottenere i fondi del Pnrr, graduatorie inceppate e conseguenti ricorsi (rimando al dataroom del Corriere della Sera per chi volesse capire in modo semplice una questione molto complicata). “Ho dei colleghi che vogliono insegnare la loro materia e hanno fatto anche due o tre concorsi, ma la graduatoria non scorre. Sono sempre allo stesso punto”, mi ha detto Nicoletta Nachira, 35 anni, docente precaria, specializzata e abilitata alla professione, con cui ho fatto una chiacchierata per comprendere i vari intoppi del sistema attraverso una testimonianza diretta, fatta di spostamento dal Sud a Milano, sei scuole diverse in sette anni di precariato, inseguendo la sua passione per l’insegnamento.

Proprio pochi giorni fa, l’8 ottobre, si sono confrontati sul tema i sindacati e il ministro dell’Istruzione e del merito Giuseppe Valditara. Chiariti i numeri della questione, dopo le stime divergenti apparse nelle ultime settimane (si tratta di 230mila contratti a tempo determinato tra docenti e Ata, incluse le cattedre a orario non pieno, di cui circa 102mila su posti di sostegno), si è discusso di vari nodi irrisolti: il ministro si è impegnato a valutare la possibilità di un incremento dei posti di sostegno nell’organico di diritto; in merito alle assunzioni da Pnrr (target 70mila docenti entro dicembre 2026), che hanno un impatto sugli altri concorsi, Valditara ha sottolineato che è in corso una interlocuzione con la Commissione europea per ottenere una maggiore flessibilità nel reclutamento dei docenti, dalla quale sembrano manifestarsi aperture; la Cisl Scuola ha rilanciato la proposta di un sistema di reclutamento a due canali (idonei da un lato e concorsi dall’altro), ha chiesto di eliminare le attuali restrizioni sulle assunzioni del personale Ata per consentire la copertura con personale di ruolo di tutti i posti vacanti, e sollecitato l’eliminazione dei ritardi nel pagamento delle supplenze brevi; sulle retribuzioni, il ministro si è impegnato a ricercare nel governo la disponibilità a stanziare in Legge di bilancio ulteriori risorse per il rinnovo contrattuale, così da avere una rivalutazione significativa dei livelli retributivi di tutto il personale.

Sembra sia stato un incontro proficuo a cui ci auguriamo possa essere dato seguito, anche tenendo conto delle azioni di riforma previste dal Piano strutturale di bilancio di medio termine (2025-2029) che prevede, tra l’altro, l’impegno a favorire “l’assunzione a tempo indeterminato dei docenti a tempo determinato”, a “ridefinire i requisiti di accesso alle classi di concorso per parte del personale docente”, sottolineando che “nei prossimi anni, il processo di reclutamento dovrà essere ulteriormente affinato”. Oltre a rivedere con attenzione sistemi e processi, però, occorre investire subito nella scuola trovando risorse aggiuntive già nella Legge di bilancio 2025. Le condizioni di contesto non sono certamente favorevoli, ma è proprio quando ci sono pochi soldi che la politica deve fare scelte chiare, anche per ridare visibilità a tutti quei docenti fantasma che cercano di formare i futuri cittadini.

DIFFICOLTÀ DI ACCESSO DEI GIOVANI ALL’INSEGNAMENTO. Date le difficoltà appena descritte, credo sia facile intuire lo sconforto dei giovani mentre cercano di farsi strada all’interno del sistema per diventare insegnanti. Si tratta di un tema importante se consideriamo che i docenti in Italia sono tra i più anziani d’Europa: oltre metà del corpo docente ha più di 50 anni, contro il 37% della media dei 38 Paesi Ocse. Inserire giovani docenti vuol dire non solo promuovere l’occupazione giovanile, ma anche favorire metodologie didattiche innovative e competenze nuove, ad esempio, sulle tecnologie.

Le giovani e i giovani si trovano però davanti a un percorso tutto in salita, sia a livello di accesso che di attrattività. Il caos dei concorsi non è fatto solo di graduatorie che non scorrono, ma anche dell’ostacolo dell’algoritmo di selezione. Il software nato per evitare assembramenti in tempi di Covid automatizza le nomine in base alle scelte fatte con largo anticipo dagli interessati, accoppiandole con le cattedre rimaste vacanti per l’anno scolastico appena avviato. Ma in questo modo ostacola i precari che si ritrovano a non poter scegliere gli incarichi più favorevoli in base alle condizioni attuali, mentre, in specifici casi, fa “scavalcare” alcuni docenti rispetto ad altri senza possibilità di modifica della decisione presa (qui la prima sentenza che condanna il ministero a risarcire una supplente).

A questo si aggiunge il tema degli stipendi degli insegnanti italiani che, secondo il Rapporto Ocse “Education at a Glance”, restano tra i più bassi d'Europa. Uno stipendio con cui è difficile costruirsi una famiglia e vivere nelle grandi città. Uno stipendio che spesso non rende giustizia al lungo percorso di studi fatti (tra lauree e abilitazioni) e al tempo che l’attività di docenza richiede (non vanno considerate, infatti, solo le ore di scuola, ma anche quelle spese per la preparazione delle lezioni, le questioni burocratiche, le riunioni, ecc.).

Infine, la questione degli ingenti costi da sostenere per diventare insegnante. Il Pnrr ha giustamente previsto un rafforzamento della formazione in ingresso degli insegnanti, ma sulla base dei decreti attuativi relativi ai percorsi abilitanti docenti, questi ultimi possono avere costi fino ai 2.000 euro (per 30 Cfu) o 2.500 euro (60 Cfu), oltre ai 150 euro della prova finale. “Se vuoi insegnare devi sborsare un sacco di soldi per abilitarti, ma questo non solo per i neolaureati, vale anche per chi è nel sistema da tantissimi anni, come me che lo sono dal 2019”, mi ha detto ancora Nicoletta Nachira, raccontandomi delle numerose spese fatte di tasca propria negli anni tra master, corsi per raggiungere i 60 Cfu per l’abilitazione, trasferte, specializzazioni, libri e materiale scolastico.

Nel Rapporto ASviS 2024 che presenteremo la prossima settimana, il 17 ottobre, proponiamo di affrontare seriamente il sistema di incentivazione dei docenti per attrarre, come accade in altri Paesi europei, i migliori giovani neolaureati, attraverso iniziative come: borse di studio a giovani con master e dottorati in settori scientifici corrispondenti a classi di laurea carenti; agevolazioni di accesso alla professione di docente ai ricercatori con dottorato, riconoscendo loro in termini retributivi l’anzianità di servizio presso università ed enti di ricerca, a fronte dell’obbligo di un’adeguata formazione pedagogica.

QUALITÀ DELLA DIDATTICA. “Se è verosimile, come suggerito dalle ricerche internazionali in questa materia, che la qualità dell’insegnamento sia il fattore endogeno ai sistemi scolastici più rilevante per migliorare la qualità degli apprendimenti, appare evidente che poche misure hanno un effetto più trasformativo che investire sugli insegnanti”, sottolineiamo ancora nel Rapporto. Ho toccato il tema delle ripercussioni del precariato sulla continuità della didattica già in apertura, ma vorrei soffermarmi su un ultimo aspetto che riguarda più da vicino gli insegnanti di sostegno. “La continuità didattica è importante per i ragazzi. Quando questa viene a mancare ne risentono loro, le famiglie e anche noi, perché dobbiamo sempre ricominciare da capo; ma più di tutti ne risentono gli alunni con disabilità, in particolare quelli con autismo, che sono spesso più restii al cambiamento”, mi ha raccontato Nachira, condividendo le parole della mamma di un alunno autistico quando si sono dovute salutare: “Io non so come dirglielo a mio figlio, perché l’ultima volta che gliel’ho detto non è più voluto andare a scuola”. Invece, purtroppo, sono proprio le giovani persone con disabilità a pagare il prezzo più alto delle disfunzioni esistenti dal momento che, come abbiamo visto, il maggior numero di precari sono proprio i docenti di sostegno.

Concludo menzionando la Giornata mondiale degli insegnanti, celebrata il 5 ottobre e dedicata al tema “Valorizzare la voce degli insegnanti: verso un nuovo contratto sociale per l'istruzione”, in cui sono state individuate “le tre parole dell’insegnante”: interesse, curiosità ed entusiasmo. Ecco, io credo che abbiamo il dovere morale di fare in modo che la precarietà e i bassi salari non spengano la forza di queste parole e non sviliscano ulteriormente la figura degli insegnanti, il loro fondamentale ruolo sociale per l’intera società, ma anche la stessa idea nobile del valore dell’istruzione. Perché spegnerle nei docenti, vorrebbe dire spegnerle anche in tutti quei giovani e quelle giovani che si lasciano guidare ogni giorno verso l’età adulta.

a cura di Flavia Belladonna

ASviS

L’Alleanza Italiana per lo Sviluppo Sostenibile (ASviS), nata il 3 febbraio del 2016 su iniziativa della Fondazione Unipolis e dell’Università di Roma “Tor Vergata”, è una rete di oltre 300 soggetti impegnati per l’attuazione dell’Agenda 2030 delle Nazioni unite e dei suoi 17 Obiettivi di sviluppo sostenibile (SDGs). L’Alleanza si pone come obiettivi di: - favorire lo sviluppo di una cultura della sostenibilità a tutti i livelli, orientando in tal senso gli stili di vita, i sistemi di convivenza civile e i modelli di produzione e di consumo; - analizzare le implicazioni e le opportunità per l’Italia legate all’Agenda globale per lo sviluppo sostenibile; - contribuire alla definizione di strategie nazionali e territoriali per il conseguimento degli SDGs e alla realizzazione di un sistema di monitoraggio dei progressi a livello nazionale e territoriale verso gli SDGs. L’Associazione opera secondo un modello di lavoro innovativo e inclusivo in grado di stimolare la coesione e il coinvolgimento, l’apertura alla diversità e la pluralità di visioni, al fine di promuovere il cambiamento sociale e culturale necessario.