“In nome del popolo inquinato”: che Paese siamo se Legambiente, Libera, Arci e associazioni cattoliche devono fare arringhe lungo tutta la Penisola per richiamare il diritto alla salute e chiedere di ristabilire un’“ecogiustizia” negata da decenni?
La giustizia? È amministrata nel nome del popolo, certo. Articolo 101 della Costituzione. “In nome del popolo sovrano”? Macché, in quel film Nino Manfredi, Alberto Sordi e compagnia bella avevano a che fare col potere pontificio e i capricci dell’aristocrazia romana. Niente in confronto all’ingiustizia che, tra la pressoché totale disattenzione, colpisce oggi un italiano su dieci. Sono infatti sei milioni le persone che vivono in territori altamente inquinati e che da decenni sono in attesa di bonifica. E allora ecco perché domani parte “Ecogiustizia subito. In nome del popolo inquinato”, un tour che non è né teatrale né cinematografico ma di denuncia. Una campagna nazionale itinerante programmata da tempo da una rete apparentemente eterogenea ma sostenuta da un comune principio di giustizia sociale.
Eccole le associazioni protagoniste della tournée tutt’altro da ridere: Acli, Agesci, Arci, Azione Cattolica Italiana, Legambiente e Libera. Prima tappa domattina, a Casale Monferrato (in provincia di Asti), una delle aree in cui sorgevano gli stabilimenti ex Eternit dove ancora oggi l’amianto continua a mietere vittime. E poi via lungo tutta la penisola, toccando i maggiori – i peggiori – tra i 42 Siti di interesse nazionale (Sin) che da troppo tempo aspettano di essere bonificati, ai quali si aggiungono oltre 36 mila Siti di interesse regionale (Sir) che condividono la stessa sorte.
Dopo l’appuntamento in Piemonte la campagna farà su e giù sbarcando anche nelle isole, andando al Sin di Taranto (15 gennaio), al Sin di Porto Marghera (in provincia di Venezia), la più importante area petrolchimica d’Italia (22 gennaio), a quello di Priolo, Augusta, Melilli e Siracusa (12 febbraio), al sito ex Caffaro di Brescia (12 marzo), dove è stata riscontrata una contaminazione diffusa da metalli pesanti e policlorobifenili (Pcb) e al Sin Napoli Orientale (3 aprile). Su e giù per l’Italia per oltre quattro mesi, organizzando eventi di divulgazione, promuovendo forum, coinvolgendo istituzioni, altre associazioni, mondo del lavoro e delle imprese.
Su e giù, per dire cosa? Intanto, che va applicato il principio “chi inquina paga”. Un principio sancito tanto da direttive dell’Unione europea quanto da normative italiane, che però, come dimostrano i fatti, non viene rispettato e a farne le spese è almeno un italiano su dieci.
Ma, come per tutte le ingiustizie, il problema non riguarda soltanto quei sei milioni di cittadini costretti a vivere in zone che da decenni aspettano di essere liberate dalle sostanze inquinanti che impregnano terre e acque. Già questo basterebbe a imporre un sussulto di coscienza e far procedere con le misure necessarie per voltare pagina, ma il problema riguarda tutti noi perché le mancate bonifiche, come denunciano le associazioni impegnate nella campagna itinerante, «sono un’emergenza nazionale di cui si parla poco e che va affrontata senza ulteriori rinvii»: «La politica e le istituzioni hanno sottovalutato questo problema, e nel frattempo ci sono milioni di cittadine e cittadini che hanno perso la speranza di futuro, tra inquinamento che permane e posti di lavoro che se ne vanno. Serve una presa di coscienza collettiva ma anche un serio impegno da parte delle istituzioni nazionali, a cominciare dai ministeri dell’Ambiente e delle Imprese, e quelle regionali e locali».
Chi ha responsabilità deve garantire a tutti i cittadini la tutela della salute, «fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività», come recita l’articolo 32 della Costituzione. Devono pensarci delle associazioni a ricordarlo? Bene, se per tanti, troppi anni se ne sono dimenticate le istituzioni. Ma adesso è arrivato il momento di voltare pagina. Non foss’altro, perché oggi ci sono sia tecnologie all’avanguardia che mancavano decenni fa sia nuove opportunità nel settore occupazionale che aprono nuove strade. Il presidente di Legambiente Stefano Ciafani scrive in un intervento sul Corriere della Sera che «la politica dei due tempi adottata fino ad oggi - secondo cui prima si fanno le bonifiche e poi si pensa agli eventuali investimenti produttivi - ha portato solo allo stallo del risanamento e alla rassegnazione di vivere in aree che hanno solo la certezza dell’inquinamento e dei danni sanitari, certificati da diversi studi epidemiologici». Ebbene, il seguito del ragionamento riguarda l’alto numero di posti di lavoro che la green economy sta consentendo di creare in Italia. Come evidenziato dal rapporto GreenItaly 2024 realizzato dalla Fondazione Symbola insieme a Unioncamere e Centro Studi Tagliacarne, lo scorso anno le figure professionali inerenti all’economia verde erano oltre tre milioni, una cifra che ha fatto toccare il 13,4% del totale dei posti di lavoro. Non solo: circa il 35% dei nuovi contratti stipulati nel 2023 (quasi due milioni su 5,5) erano proprio in ambito green economy. Spiega Ciafani che con questa campagna itinerante «si vuole inaugurare una nuova stagione in cui le bonifiche e gli investimenti industriali sulla transizione ecologica viaggiano contemporaneamente, a partire da quelli della filiera delle fonti energetiche rinnovabili e dell’economia circolare».
Serve qualcos’altro per convincere chi di dovere della necessità di procedere con le bonifiche, l’attuazione di misure per la tutela della popolazione residente e il rilancio di questi territori? No, non servirebbe. Ci sarebbe sì un ulteriore argomento richiamato dai promotori della campagna “Ecogiustizia subito”, ovvero che un piano di risanamento può portare non solo benefici occupazionali ed economici nelle aree interessate, ma anche introiti compensativi nelle casse dello Stato: «Secondo una stima di Confindustria – riportano i promotori – un investimento di 10 miliardi di euro nelle bonifiche dei Sin potrebbe creare 200mila nuovi posti di lavoro. Lo Stato, da parte sua, rientrerebbe di circa 4,7 miliardi di euro attraverso maggiori entrate fiscali e contributi sociali». Ma saremmo un Paese davvero malato se, per convincere della necessità di finalmente bonificare laddove viene messa a rischio la salute del 10% della popolazione italiana, ci si dovesse muovere sulla base di meri calcoli economici di entrate e uscite.