I Gattopardi. Nell’isola tornata all’Ottocento con 2 milioni di siciliani senz’acqua indagano Corte dei Conti, GdF e Procure. E si scopre che la Regione paga a Eni-Sace dal 2016 10,5 mln/anno il dissalatore più grande d’Europa abbandonato nel mare di Gela
In Sicilia nulla cambia in tema di acqua perché nulla potrà cambiare finché l’isola sembrerà di un’altra era e rassegnata al peggio. C’è chi si culla nell'illusione del miracolo della pioggia che risolverà una delle più gravi crisi di siccità ma, arrivata la pioggia, la realtà dimostrerà che il disastro è immutabile se il servizio idrico resterà ottocentesco, volutamente deregolamentato nella regione che non applica la Legge Galli di 28 anni fa, e l’acqua resterà nelle mani perlopiù di autobottisti e grossisti che la vendono ai comuni e ai comuni mortali come se fossimo nel Medioevo. L’acqua, infatti, arriva con le autobotti più che dalle reti che sull’isola sono fatiscenti o inesistenti, e il costo di un’autobotte da 8 mila litri di acqua dall’inizio della siccità è già schizzato da 50 euro a 160 euro. E la Regione continua a finanziare cisterne su quattro ruote con altre 109 autobotti da acquistare e da far riempire ai “padroni” delle fonti e dei pozzi.
Ma nel bel Palazzo d’Orleans che ospita la Regione si scopre, grattando sotto la ruggine dei primi tre dissalatori italiani che galleggiavano nel mare della Sicilia dagli anni Settanta del Novecento davanti a Porto Empedocle, Trapani e Gela e oggi diventati monumenti idrici del disonore, che il governo regionale sta pagando a caro prezzo l’ormai rottame del più grande dissalatore europeo, quello di Gela. Nel 1974 desalinizzata l’acqua del mare con la tecnologia più avanzata e come primo impianto in Europa garantiva acqua sia all’allora Polo petrolchimico, sia ai 300mila abitanti nelle province di Caltanissetta e Gela.
Il complesso industriale di raffinazione, trasformazione e stoccaggio di idrocarburi era stata l’idea di Enrico Mattei e fu realizzato nel 1963 dall’”Azienda Nazionale Idrogenazione Combustibili”. Venne poi dismesso dall’ENI nel 2014 che lo ha riconvertito in bioraffineria nel 2019 con attività da fonti rinnovabili su terreni ormai bonificati. Il 2015 fu l’anno della transazione della Regione con l’Eni chiusa da Rosario Crocetta che all’allora guidava la giunta di centrosinistra con un accordo transattivo del contenzioso che durava da una decina di anni che prevedeva un esborso regionale di 105 milioni e 360mila euro da pagare a rate annuali da 10,5 milioni di euro dal 2016 al 2025.
Da allora, quindi, la Regione sta pagando l’impianto di dissalazione dimenticato da tutti e lasciato arrugginire, eppure sempre ricordato nei decreti annuali di liquidazione stilati dall’assessorato dell’Energia alla voce “oneri per il ripianamento delle situazioni debitorie pregresse relative alla gestione degli impianti ed alla fornitura delle utilities del dissalatore di Gela”. Il beneficiario oggi è la SACE Fct controllata dal Ministero dell’Economia, alla quale l’ENI ha ceduto nel 2020 il credito. La Regione più in ritardo nelle infrastrutture idriche, con i maggiori rischi di siccità per la penosa condizione del servizio idrico, ha lasciato senza più manutenzioni il grande dissalatore che almeno garantiva acqua a tanti comuni a partire da Gela che oggi sono nella dramma.
L’impianto è ora un rottame. Venne definitivamente dismesso nel 2006, poteva essere rimesso in funzione e potevano essere allacciate nuove reti se solo le istituzioni regionali avessero provveduto considerato anche il clamoroso esborso annuale. Stessa sorte degli altri due dissalatori rottamati di Trapani e di Porto Empedocle, proprio le zone con Gela tra le più colpite dalla siccità, con l’impianto di Porto Empedocle inaugurato nel 2005 dall’allora presidente Totò Cuffaro che ha dissalato e pompato acqua per appena 5 anni pagato 6 milioni di euro.
Storiacce che chiamano in causa la politica e la pessima gestione di beni pubblici e della risorsa fondamentale. Storiacce come i due terzi dell’isola lasciata senza o con depuratori fatiscenti la cui mancanza sta costando a tutti noi cittadini italiani una bella quota dei 125.000 euro pagati ogni santo giorno dall’Economia per le prime due sanzioni della Corte di Giustizia europea per circa 2.000 piccoli e medi comuni che scaricano ancora fogne nei fiumi o nel mare.
La carenza o assenza di acqua penalizza i cittadini, l’agricoltura, l’industria, il turismo e la cultura, le città e le campagne, eppure manca il buon senso di una svolta, una riforma regionale mentre questa ennesima durissima crisi idrica colpisce oltre 2 milioni di siciliani, quasi la metà degli abitanti, che ti raccontano scene che sembrano uscite da romanzi di Pirandello, Sciascia, Camilleri. Perché in fondo tutto quel che accade ricorda le crisi dei secoli scorsi, con le stesse tristissime scene di file per l’acqua, l’assalto ai supermercati per l’acqua imbottigliata, le imprecazioni contro Regione e sindaci, le lamentele per gli stessi problemi irrisolti, la ripetizione delle stesse promesse trascinate nel tempo e mai attuate.
Da qualche giorno, nell’isola che da 28 anni non applica una legge dello Stato come la legge Galli, indagano i magistrati contabili della Corte dei Conti che hanno aperto un fascicolo e verificano spese e gestioni tra assessorati regionali e i gestori come Amap di Palermo, Sicilacque Spa al 75% Italgas e 25% Regione, AcquaEnna, e i comuni. Vorrebbero capire che fine ha fatto l’acqua, quanta se ne preleva da pozzi e dighe, a quanto viene venduta, chi e come la vende, come si spendono i fondi pubblici e dove vanno i ricavi della “vendita” della risorsa, chi programma le manutenzioni su invasi e reti e chi le fa. E se negli uffici della Regione autonoma con legge costituzionale n. 2 del 16 febbraio 1948 bussa alla porta la Guardia di Finanza, nei municipi di Enna e dei 29 comuni dell’Ennese bussa la Procura per capire i perché dell’acqua distribuita solo ogni 8 giorni e solo per poche ore dalle 23 in poi quando possono essere avviate lavatrici, lavastoviglie e va riempito alla svelta tutto quel che può contenere acqua: bottiglie, bidoni, bacinelle, secchi, pentoloni e le cisterne condominiali da 500 litri. Dopodiché l’acqua c’è per due o tre giorni e poi si resta nell’attesa della turnazione. Così nei luoghi di lavoro e nelle scuole che ormai pensano di riattivare la didattica a distanza.
Alla politica spetterebbe porre fine a finzioni di gestioni affidate al 68% dei comuni siciliani, caso unico in Italia, con assessorati senza risorse né personale tecnico per riparare un tubo. In oltre due terzi dell’isola mancano governance e aziende idriche, piani tariffari e di investimento. Eppure, in nome dell’autonomia siciliana, il consiglio regionale a larghissima maggioranza da tre lustri boccia quei pochissimi tentativi di ragionevole applicazione della riforma dello Stato, boicotta in maniera seriale e trasversale ogni disegno industriale di gestione delle infrastrutture idriche, e in nome dell’”acqua pubblica” l’acqua è emergenza continua, durissima e vergognosa per una regione italiana ed europea.
In questi giorni di passione, la cabina di regia regionale presieduta dal commissario Salvo Cocina, capo della Protezione Civile regionale, deve fronteggiare comitati di mamme o di agricoltori e allevatori che macellano animali per non farli letteralmente morire di sete, tenta piani di sopravvivenza. Il presidente della Regione, Renato Schifani, continua la querelle con il suo predecessore Nello Musumeci oggi ministro per la Protezione Civile, su colpe e finanziamenti e tranche di “20 milioni di euro che Palazzo Chigi aveva garantito”, e stanzia 50 milioni di euro per ristori agricoli e sostegni alle famiglie e per i silos d’acciaio o in plastica alimentare da far collocare nelle piazze dove si faranno file per riempire bottiglie e bidoni. E ieri la Protezione civile ha fatto appello al volontariato per mettere a disposizione i pickup per le emergenze incendi con contenitori da 400 litri di acqua per portare acqua nei comuni di Caltanissetta, San Cataldo, Troina, Nicosia, Cerami, Gagliano Castelferrato, Sperlinga, Enna e Calascibetta, i più colpiti.
L’isola dove le precipitazioni superano di quasi venti volte i fabbisogni e dove mancano infrastrutture e impianti per immagazzinare, distribuire, utilizzare con efficienza e risparmio l’acqua, e poi depurarla, tra le 46 dighe di competenza regionale che potrebbero invasare 708 milioni di metri cubi di acqua ma ormai sono pozzanghere ne conta oltre metà “fuori esercizio”, a “invaso limitato”, “in attesa di collaudo”, e tutte da decenni non sono ripulite da sedimenti.
Ecco perché la Sicilia non può raccontarsi come un avamposto africano piuttosto come lo specchio del menefreghismo senza freni.