Clima, contro la psicologia del negazionismo serve buona informazione

Il complottismo fa male alla salute, eppure molti cadono nella sua trappola e tutti siamo esposti al rischio

[5 Gennaio 2024]

Per la comunità scientifica globale impegnata a studiare il clima, c’è una crisi climatica in corso ed è alimentata principalmente dalle emissioni di CO2 derivanti dai combustibili fossili bruciati per mano umana.

Prendendo in esame gli oltre 88mila studi pubblicati sul tema – su riviste peer-reviewed – dal 2012 al 2020, solo 28 mostrano scetticismo in merito. Si tratta di un consenso scientifico pari al 99,9%, fatto proprio dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico (Ipcc) fondato dall’Onu nel 1988.

Non c’è più dibattito sul tema: si riaprirà solo se e quando si accumuleranno evidenze e dati contrari, passando al vaglio della comunità scientifica di cui sopra.

A livello globale la temperatura media atmosferica si è fatta più calda di 1,1°C rispetto all’era preindustriale, avvicinandoci pericolosamente alla soglia di sicurezza di +1,5-2°C.

L’Italia, peraltro, è uno dei Paesi del mondo dove la crisi climatica corre più veloce: siamo già a quasi +3°C, abbiamo perso il 20% della disponibilità d’acqua rispetto al periodo 1921-50 (e rischiamo di perderne un altro 40-90% entro il 2100), e solo nei primi 5 mesi di quest’anno sono aumentati del 135% gli eventi meteo estremi (la cui frequenza e intensità crescono a causa dei cambiamenti climatici).

Eppure, anziché riflettere collettivamente sulle soluzioni al problema, nel dibattito pubblico italiano si parla poco e male della crisi climatica.

Il monitoraggio periodico di Greenpeace e Osservatorio di Pavia testimonia come il tema continui ad avere scarsa visibilità su giornali e tg più diffusi in Italia, mentre aumentano le pubblicità delle aziende inquinanti. Non è un caso che al contempo le posizioni del Governo Meloni sulla natura vengano definite «incomprensibili e a tratti sconvolgenti» dal Wwf.

In tutto il mondo, a partire dal cattivo esempio offerto dai Repubblicani statunitensi negli ultimi anni di trumpiana memoria, la narrazione dell’estrema destra si sta saldando con quella del negazionismo climatico. La transizione ecologica rappresenta infatti una minaccia esiziale per l’attuale distribuzione di potere e di risorse economiche nella nostra società, difesa dai conservatori.

Sono i più ricchi i principali responsabili delle emissioni climalteranti, e sono in grandi redditi e patrimoni da tassare per finanziare la transizione ecologica, a vantaggio dei più deboli e per creare nuovi posti di lavoro. Così da contribuire a inverti il trend che in Italia ha visto i poveri quasi triplicare dal 2005 e la disuguaglianza crescere a dismisura.

In un simile contesto, il capolavoro dell’estrema destra (ma anche della sinistra più populista) è aver diffuso una narrazione dove le politiche verdi vengono fatte passare come “elitarie”, frutto di un complotto per impoverire il popolo imponendo nuovi stili di vita.

Cavalcando la rabbia dei cittadini contro la cosiddetta “casta”, la casta stessa attua così la strategia del gattopardo per mantenere i propri privilegi, facendo leva sul negazionismo climatico.

Non è una novità: da decenni i cosiddetti mercanti di dubbi vengono assoldati per negare la crisi climatica, ricalcando la strategia già adottata in passato dall’industria del tabacco per mascherare i danni del fumo alla salute.

A parte residuali eccezioni, oggi il negazionismo sul clima si è fatto però più peloso. Ha superato la fase in cui si mette platealmente in discussione la realtà di un riscaldamento delle temperature globali, ormai sotto gli occhi di tutti. Le strategie si basano dunque su letture più subdole della realtà: affermando che il clima è sempre cambiato e non c’è da allarmarsi, che la specie umana non è responsabile di tale cambiamento o che comunque non può risolverlo.

Tutti questi approcci puntano a insinuare il dubbio che la comunità scientifica sia ancora divisa sul tema, diffondendo al contempo inerzia e sconforto nella cittadinanza,e ritardando così le azioni risolutive.

La stessa dinamica è stata messa in campo durante la pandemia Covid-19 coi relativi vaccini, dando sfoggio di enorme cinismo: negli Usa, tra gli elettori di destra repubblicana – molti dei quali novax – la mortalità è stata almeno il 15% più alta che tra i democratici.

Il complottismo fa male alla salute, è evidente, eppure molti cadono nella sua trappola e tutti siamo esposti al rischio. Come mai? Per abbozzare una risposta occorre esplorare le modalità con cui il nostro cervello è abituato ad elaborare le informazioni.

Il cambiamento climatico è un fenomeno indubbiamente complesso, che si sviluppa a livello globale e su tempi lunghi. Si tratta di una portata non facile da accogliere a livello cognitivo. Rappresenta una minaccia, di cui sappiamo poco: e ciò che non si conosce fa doppiamente paura.

Specialmente in un contesto come quello italiano, dove il 70% circa dei cittadini (contro una media Ocse del 49%) è analfabeta funzionale o comunque con capacità di elaborazione minime, chi propone una risposta semplice ma falsa al problema – derubricandolo a complotto – gode di una certa forza persuasiva.

È in gioco un meccanismo di difesa psicologica primitivo quanto efficace, la negazione. C’è una minaccia che non capisco e non so come affrontare, ma che non rappresenta un pericolo immediato per la sopravvivenza? Bene, faccio finta che non esista, come la psicologia del negazionismo climatico (un campo di studi ancora in evoluzione) insegna.

Del resto migliaia di anni di evoluzione hanno strutturato il nostro cervello per usare di default una modalità di pensiero che Daniel Kahneman, psicologo premio Nobel per l’economia, ha ribattezzato sistema 1: veloce, intuitivo e poco faticoso, ci aiuta a saltare a conclusioni in genere più che sensate e utili quando si tratta di affrontare i dilemmi della vita quotidiana. Quando il compito da affrontare richiede uno sforzo di riflessione maggiore può entrare in azione il più lento sistema 2; il suo ruolo è quello di correggere le intuizioni inesatte del sistema 1, ma è più costoso in termini di consumo energetico e spesso la pigrizia mentale prevale.

Quando si parla di clima, gli elettori di destra tendono a cadere più spesso in questo rischio. Numerosi studi mostrano che è più vulnerabile alla disinformazione chi è abituato a prendere decisioni intuitive ed è un conservatore, come anche chi ha tendenze autoritarie o ad alta dominanza e approva lo status quo.

Tutti siamo comunque esposti a bias (pregiudizi) cognitivi, come anche a chiuderci in tribù autoreferenziali che polarizzano le opinioni, soprattutto su piattaforme come i social network che favoriscono la formazione delle cosiddette echochamber (camere dell’eco).

In simili contesti è spesso inutile cercare di portare avanti uno sbufalamento delle fake news, e talvolta controproducente, in quanto può irrigidire ulteriormente le posizioni in campo. Occorre dunque una maggiore e migliore regolamentazione delle piattaforme social (interessante in tal senso il caso di Pinterest).

Al contempo, anziché andare allo scontro frontale coi negazionisti climatici, un approccio più morbido volto a stimolare lo spirito critico nella grande maggioranza del pubblico – i negazionisti restano una piccola minoranza, sebbene rumorosa – può essere più efficace.

Mostrando come funzionano i meccanismi della disinformazione, e adottando strategie di comunicazione efficaci, a partire da un’informazione scientificamente fondata e continua sul tema. Il che significa rappresentare in modo accurato i rischi della crisi climatica senza scadere nell’allarmismo, mostrando al contempo le opzioni tecnologiche già a nostra disposizione – individuate e soppesate dallo stesso Ipcc – per risolvere il problema a vantaggio di tutti.

Come spiega Antonello Pasini, ricercatore del Cnr e primo firmatario del recente appello ai media degli scienziati italiani, il nostro «futuro è nelle nostre mani e, un’informazione corretta, questo deve far capire».

Quest’articolo è stato realizzato in collaborazione con Quaderni di lotta continua, dove è stato pubblicato all’interno dell’edizione n. 4, Anno 1