Ecco quali potrebbero essere cancellati già dal 2025

Legambiente, l’Italia raddoppia i sussidi alle fonti fossili: 94,8 miliardi di euro all’anno

Ciafani: «Il Governo Meloni sta dimostrando di preferire una transizione energetica basata sul gas fossile»

[12 Dicembre 2023]

Vale ormai quasi metà dell’intero Pnrr l’ammontare annuo dei sussidi alle fonti fossili garantiti dallo Stato italiano, secondo la nuova stima formulata da Legambiente in base ai dati 2022.

Il rapporto Stop sussidi ambientalmente dannosi è stato presentato oggi a Roma, per l’apertura del XVI Forum QualEnergia – organizzato dal Cigno verde insieme a Kyoto club e La nuova ecologia, in programma fino a domani nella Capitale –, e individua una roadmap per invertire la rotta.

Non è semplice stimare l’ammontare dei sussidi alle fonti fossili, non essendoci una metodologia univoca adottata a livello internazionale; il ministero dell’Ambiente non si è ancora espresso nel merito (gli ultimi dati governativi si fermano al 2021, con 14,5 mld di euro), mentre il Fondo monetario internazionale (Fmi) stima che nel 2022 l’Italia abbia garantito alle fonti fossili sussidi per 63 mld di dollari.

Un dato che Legambiente amplia ulteriormente arrivando a 94,8 mld di euro, oltre il doppio rispetto ai 41,8 mld di euro stimati dagli ambientalisti per il 2021: un grande salto attributo, coerentemente col Fmi, attribuito ai decreti del Governo Draghi per affrontare l’emergenza bollette, causata prima dalle speculazioni sul gas e dai colli di bottiglia creatisi nella ripresa post-Covid, e aggravati dopo dall’invasione russa dell’Ucraina.

A fronte dell’eliminazione di appena 6 voci nel 2022, pari a 193 milioni di euro, sono 53 le voci in più introdotte solamente per far fronte all’emergenza energetica per una spesa totale di 51,2 miliardi di euro.

Ma il Governo Meloni rischia di fare ancora peggio: secondo le prime analisi di Legambiente, nel 2023  i sussidi alle fonti fossili salirebbero di ulteriori 27,4 miliardi di euro.

Si tratta di risorse stanziate sempre per far fronte all’emergenza energetica, e sulla quale dopo ben 3 anni di bollette alte per imprese e famiglie non si vede ancora nessuna politica strutturale. A queste si aggiungeranno sussidi a sostegno delle lobby delle fossili, come il capacity market; al contempo, si stanno varando nuove tasse sugli impianti a fonti rinnovabili, con una spesa aggiuntiva di 10 euro a kW per gli impianti di potenza superiore a 20 kW, e che rischiano di colpire anche le Comunità energetiche rinnovabili che con l’altra mano il Governo (in grande ritardo) si appresta a incentivare.

«Il Governo Meloni – dichiara Stefano Ciafani, presidente nazionale di Legambiente – sta dimostrando di preferire una transizione energetica basata sul gas fossile piuttosto che su un nuovo sistema basato su prosumer, autoproduzione, reti smart, accumuli, grandi impianti industriali a fonti rinnovabili e comunità energetiche. Parla di piano Mattei e di un possibile ritorno al nucleare, tutte strade che non porteranno al Paese nessun beneficio e alimenteranno la dipendenza dall’estero».

Nel mentre le fonti rinnovabili restano al palo, frenate da ritardi negli iter burocratici, mancate semplificazioni e no delle sovrintendenze: ad oggi sono almeno 1.400 i progetti in valutazione al ministero dell’Ambiente, il più vecchio risulta essere il progetto di eolico off shore presentato nel Golfo di Manfredonia nel lontano 2008. Da allora il numero delle torri è stato dimezzato (dalle iniziali 100 a 50) e il progetto è alla firma del ministro, con l’immancabile opposizione del Comune di Manfredonia.

«L’Italia – conferma Gianni Silvestrini, direttore scientifico Kyoto club – è condizionata dal mito dell’hub del gas, con forti rischi di stranded costs per infrastrutture che non si potranno utilizzare. Non sembra aver imboccato con decisione il percorso delle rinnovabili, dell’efficienza energetica, della mobilità elettrica e sostenibile che molti paesi europei hanno ormai avviato».

Per invertire la rotta, Legambiente propone al Governo Meloni un piano di lavoro in sette punti, che porti entro il 2025 alla rimodulazione e cancellazione di tutti i sussidi ambientalmente dannosi entro il 2030.

Da dove partire? «Ben 18,86 miliardi di euro di sussidi si possono eliminare entro il 2025 – argomentano dal Cigno verde – ai quali vanno aggiunti 8 miliardi di euro di sussidi emergenziali, e che comprendono sussidi alle trivellazioni, agevolazioni per il diverso trattamento fiscale tra benzina gasolio, Gpl e metano, il capacity market e il supporto per l’installazione di nuove caldaie a gas, per le quali solo nel 2022 sono stati spesi 3,2 miliardi di euro».

Più nel dettaglio, i tre maggiori sussidi alle fonti fossili che Legambiente propone di cancellare già entro il 2025 vertono sul rilascio delle quote gratuite nel mercato delle emissioni Ets (3,2 mld di euro l’anno), sul differente trattamento fiscale tra benzina e gasolio (3,37 mld di euro) e su prestiti/garanzie pubblici dedicati alle fonti fossili (1,13 mld di euro).

Cancellare i sussidi alle fonti fossili non è un’operazione indolore, in quanto in molti casi i prezzi dei carburanti aumenterebbero, ricadendo sui cittadini. Che fare? Resta nella facoltà dello Stato impiegare il gettito aggiuntivo per compensare le famiglie più vulnerabili, direttamente o investendo in servizi pubblici.

Al contempo, disegnare un fisco più verde offre la grande occasione di mettere in campo una più profonda riforma fiscale in senso progressivo, in modo che siano i più ricchi – i maggiori responsabili delle emissioni di gas serra – a pagare i costi della crisi climatica.

Ad esempio, una recente ricerca pubblicata dalla Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa mostra come tutti i costi della transizione ecologica (stimati in circa 430 mld di euro l’anno nell’Ue) possano essere agevolmente finanziati migliorando la progressività fiscale. In particolare, aumentando – assai blandamente – le tasse solo sull’1% degli europei più ricchi e sulle multinazionali.