Il disastro della Exxon Valdez 30 anni dopo. Cosa può insegnarci per la lotta al cambiamento climatico?

La marea nera e un'intera generazione in balia degli impatti dell'inquinamento da petrolio

[25 Marzo 2019]

Nella notte tra il 24 e il 25 marzo 1989, l’Exxon Valdez – una petroliera che trasporta 53 milioni di galloni di greggio North Slope – andò a finire su una secca nel Golfo dell’Alaska e dagli squarci che si produssero nello scafo fuoriuscirono più di 11 milioni di galloni di nelle acque incontaminate e nello spettacolare ecosistema di Prince William Sound, ricoprendo più di 700 miglia di costa lungo la penisola dell’Alaska con uno spesso strato di petrolio e uccidendo 250.000 uccelli marini, migliaia di lontre marine e centinaia di foche e aquile calve. Ancora oggi, una piccola parte di quel petrolio resta sul fondale di alcune aree dell’Alaska colpite dalla marea nera della Exxon Valdez.

Quello che fino alla tragedia della Deepwater Horizon del 2010 nel Golfo del Messico è stato il più grande disastro ambientale statunitense ha inaugurato probabilmente l’era mediatica dei disastri globali:  il mondo ha assistito in diretta alla forza distruttiva dei combustibili fossili che solo dopo sarebbe diventata consapevolezza diffusa dei cambiamenti climatici e del riscaldamento globale.

Come spiega a Nexus Media e a ThinkProgress Athan Manuel, direttore del Lands Protection program di Sierra Club, «Quelle immagini erano molto drammatiche per gli uccelli e le orche ricoperti di petrolio, le immagini erano orribili, Il  Prince William Sound era un ecosistema incredibilmente vitale. Era  una baia. Quindi ha un po’ contenuto l’inquinamento che ha lasciato un’eredità tossica molto evidente»-

Allora quello dell’Exxon Valdez fu uno sversamento senza precedenti che fece capire all’opinione pubblica quali fossero gli enormi rischi della trivellazione petrolifera nell’Artico e quanto fossero necessarie norme ambientali e di sicurezza per il  trasporto di petrolio in generale. Da quel disastro nacque  l’Oil Pollution Act del 1990 che richiedeva alla Guardia Costiera Usa di rafforzare i suoi regolamenti sulle petroliere e per gli armatori e gli operatori di navi cisterna.

Uno studio del 1997 del Pew Center classificò il disastro dell’Exxon Valdez tra le 20 notizie più importanti del decennio e per un’intera generazione, le immagini di uccelli marini ricoperti di greggio e dei soccorritori che ripulivano gli scogli  divennero il simbolo dei pericoli della produzione di petrolio.

Un anno dopo la marea nera, Bruce Manheim,  dell’Environmental Defense Fund di Washington, disse: «Alcuni l’hanno chiamata la nostra Chernobyl, in termini di risveglio delle coscienze».

Da allora, in tutto il mondo le grandi fuoriuscite di petrolio dalle petroliere – almeno 5.000 galloni –  sino diminuite anche se la produzione di petrolio è aumentata e questo è dovuto anche a una maggiore regolamentazione della sicurezza, come la progressiva eliminazione delle petroliere a scafo singolo come la Exxon Valdez. Secondo le statistiche della International Tanker Owners Pollution Federation, tra il 2010 e il 2018 ci sono stati in media  1,9 sversamenti petroliferi di grandi dimensioni all’anno, molto meno degli anni 1970-1979 e 1980-1989 con rispettivamente 24,5 e 9,4 grandi sversamenti all’anno.

Secondo il Bureau of Ocean Energy Management, anche le maree nere provocate dalle piattaforme petrolifere offshore legati a trivellazioni offshore come la Deepwater Horizon sono in calo negli Usa  Ma, come scrive Sarah Sax su Nexus Media, «La Exxon Valdez ha reso visibili i rischi ambientali immediati associati all’estrazione di combustibili fossili. Oggi, a distanza di decenni, gli impatti climatici a lungo termine derivanti da decenni di estrazione di combustibili fossili hanno assunto un ruolo centrale, poiché la questione diventa una preoccupazione più pressante e visibile».

Richard Heede, co-direttore del Climate Accountability Institute, aggiunge: «Penso che la consapevolezza climatica fosse bassa al momento all’Exxon Valdez. “o sversamento era un problema risolvibile. Ma non c’era un ponte con il cambiamento climatico». Ma le fondamenta di quel ponte stavano per essere gettate: il cambiamento climatico era già emerso come qualcosa di molto preoccupante. Meno di un anno prima della marea nera, James Hansen aveva testimoniato al Congresso Usa  sui cambiamenti climatici, e aveva avvertito gli allibiti parlamentari che «Il riscaldamento globale è iniziato». Un anno dopo lo sversamento, l’Intergovernmental panel on climate change (Ipcc) dell’Onu pubblicò il suo First Assessment Report  che concludeva che il cambiamento climatico era già in atto, aveva origini antropiche ed entro un decennio si sarebbe cominciato a vederne gli impatti.

Con il suo rapporto “The Carbon Logic” del 1997, Greenpeace fu una delle prime ONG ambientaliste a denunciare le responsabilità e gli abusi ambientali delle compagnie petrolifere e dei governi di tutto il mondo, sottolineando n particolare il doppio rischio dell’estrazione di combustibili fossili e dei cambiamenti climatici. Un rapporto che attirò l’attenzione sul rischio di bruciare tutto il carbonio contenuto nei giacimenti di combustibili fossili delle multinazionali petrolifere e che già allora ammoniva: «Il fallimento dei governi nell’agire ora per ridurre le aspettative del mercato sulla futura domanda di combustibili fossili può solo imporre maggiori costi politici ed economici ai tentativi delle generazioni future di limitare la quantità di combustibili fossili sfruttati per proteggere il sistema climatico».

Nel 2011, l’Ipccc pubblicò il suo rivoluzionario rapporto “Extreme Weather and Climate Change” e Carbon Tracker l’analisi “Unburnable Carbon” che calcolava per la prima volta quanto ci rimaneva da “spendere” del nostro bilancio di carbonio  – 565 gigatonnellate di CO2 – per far restare il pianeta sotto i 2° C di riscaldamento. Mentre se bruciassimo tutte le riserve petrolifere in possesso delle multinazionali private e pubbliche si arriverebbe a 2.795 gigatonnellate di CO2, 5 volte oltre la soglia di sicurezza.

Nel 2015, nello stesso anno in cui 195 Paesi adottavano l’Accordo di Parigi sul clima, InsideClimate News pubblicava un’indagine che dimostrava che, proprio mentre la Exxon Valdez sversava milioni di galloni di greggio in un ambiente fino ad allora intatto, i capi della Exxon erano già da anni a conoscenza gli effetti potenzialmente catastrofici dei cambiamenti climatici e avevano iniziato a finanziare con milioni di dollari false associazioni ambientaliste e think thank conservatori  per diffondere dubbi sulla sua base scientifica del riscaldamento globale e sui suoi effetti. Sono gli stessi che vediamo al lavoro oggi in un’opera di disperata diffamazione di Greta Thunberg e del movimento dei giovani per il clima.

Ma oggi la Exxon – diventata ExxonMobil dopo il disastro della Exxon Valdez – afferma sul suo sito internet: «Riteniamo che i rischi per il cambiamento climatico meritino un’azione e noi tutti ci impegneremo… a compiere progressi significativi».

In effetti, le compagnie petrolifere stanno attuando quella che è probabilmente una delle più grandi e sfacciate operazioni di greenwashing mai tentate: si sono unite al coro del mondo degli affari che chiede una maggiore azione climatica, ma intanto continuano a investire nella ricerca di giacimenti di idrocarburi e a ricevere trilioni di dollari di finanziamenti dalle banche globali per produrre petrolio.

Heede, che è uno degli autori di un recente studio che stima che la produzione di tutto il petrolio e il gas contenuto nei giacimenti delle 70 compagnie che possiedono il 63% del petrolio e gas del mondo aumenterebbe del 160%.il nostro bilancio di carbonio, sottolinea: «Ancora oggi, per i cambiamenti climatici la più grande minaccia è l’investimento di capitale nei combustibili fossili. Allo stato attuale, i cambiamenti climatici potrebbero essere mitigati, ma non saranno risolti. L’attuale generazione, me compreso, non ha fatto abbastanza. Sono fiducioso per Greta Thunberg e il risveglio della gioventù, ma dobbiamo correre in maniera  spaventosa».

Molti dei giovani che hanno sfilato il 15 marzo nelle strade di tutto il mondo probabilmente sanno poco o nulla della Exxon Valdez (ma anche le generazioni più anziane non scherzano) ma sanno molto sugli impatti già visibili dei cambiamenti climatici: sbiancamento delle barriere coralline, uragani mortali come quello che ha colpito qualche giorno fa l’Africa Australe, inondazioni che prima avvenivano ogni 500 anni e che ora si ripetono ogni 10, l’innalzamento del livello del mare che inghiotte isole e coste…  Il riscaldamento globale è la nuova normalità della generazione di Greta cresciuta con gli impatti visibili dei cambiamenti climatici e che chiede nuove politiche per affrontarli, come il Green New Deal negli Usa.

In un editoriale sul Baltimore Sun, gli organizzatori di Zero Hour Kallan Benson e Claire Wayner scrivono: «Entrambi abbiamo guardato la  TV mentre le inondazioni  inghiottivano trade e scuole locali, distruggendo case e auto a poche miglia da noi. Sfortunatamente, per noi questa non era una novità: inondazioni come queste da ogni “centinaia di anni “e da ogni “migliaia di anni” hanno colpito il nostro Stato diverse volte nell’ultimo decennio … cosa ci vorrà affinché tutti possano finalmente riconoscere e affrontare la causa principale: il cambiamento climatico, che sta dietro a queste inondazioni?»

Così, mentre la marea nera della Exxon Valdez attirò l’attenzione dell’opinione pubblica sugli impatti ambientali a breve termine dell’estrazione petrolifera, stavano iniziando a emergere gli impatti a lungo termine, in gran parte invisibili, dell’estrazione di combustibili fossili.

«Trent’anni dopo – conclude  Sarah Sax – la consapevolezza si è capovolta. Mentre gli sversamenti di petrolio continuano a condizionare il nostro flusso di notizie, gli impatti visibili dei cambiamenti climatici sono aumentati drammaticamente. Il relitto della Exxon Valdez potrebbe passare alla storia come uno dei più visibili e iconici disastri ambientali per un’intera generazione, ma sfortunatamente per noi, il pieno impatto del disastro climatico globale è molto più spaventoso e molto meno probabile che se ne vada».