Esulta il movimento ambientalista Yasunidos dopo 10 anni di lotta: «Abbiamo fatto la storia»

In Ecuador il petrolio resta sotto terra: vinto il referendum per bloccare le trivelle in Amazzonia

La compagnia nazionale Petroecuador dovrà rinunciare al 75% della propria produzione, e lo Stato a 1,2 mld di dollari annui di entrate. L’alternativa per recuperare risorse? Tassare i più ricchi

[21 Agosto 2023]

Lo scrutinio delle schede non è ancora terminato, ma il referendum svoltosi ieri in Ecuador per fermare le trivellazioni petrolifere nel Parco nazionale Yasuni, in Amazzonia, si delinea già come un successo.

Con oltre il 93% dei voti scrutinati, quasi il 59% degli elettori ha chiesto di fermare l’estrazione di combustibili fossili dal sottosuolo dell’Amazzonia, in particolare nelle aree di Ishpingo, Tambococha e Tiputini (Itt): il cosiddetto Blocco 43.

Si tratta di un risultato storico conseguito dal movimento ambientalista Yasunidos, che da un decennio ormai lotta contro questo progetto fossile, raccogliendo oltre 750mila firme per indire il referendum e conducendo una battaglia legale – arrivata fino alla Corte costituzionale – per poter svolgere la consultazione.

«È la prima volta che un Paese decide di difendere la vita, lasciare il petrolio sottoterra e iniziare un cambiamento per cercare un futuro migliore per tutte e tutti. Oggi abbiamo fatto la storia», esultano da Yasunidos.

Anche perché la scelta non è stata affatto indolore, sotto il profilo economico. Nel Blocco 43 opera Petroecuador, ovvero la compagnia petrolifera nazionale dell’Ecuador, estraendo ogni giorno oltre 50mila barili di petrolio: si tratta del 10% della produzione nazionale del Paese e ben il 75% di quella di Petroecuador.

Secondo le stime del Governo, rinunciare a quest’attività significa perdere 1,2 mld di dollari l’anno in entrate per lo Stato. Ma da Yasunidos fanno notare che la massiccia produzione petrolifera finora non ha contribuito a sollevare l’Ecuador dalla povertà; in compenso, sarebbe sufficiente incrementare dell’1,5% la tassazione rivolta ai gruppi economici più ricchi del Paese – che negli ultimi anni hanno invece pagato sempre meno tasse, nonostante profitti in crescita – per più che compensare le entrate legate allo sfruttamento del Parco naturale.

Al contempo, difendere lo Yasuni permetterà di salvaguardare una biodiversità ricca quanto irripetibile – qui vivono oltre 2.000 specie di alberi e arbusti, 204 di mammiferi, 610 di uccelli, 121 di rettili, 150 di anfibi e oltre 250 di pesci –, oltre ad alcune tribù umane incontatte.

«Le terre dei popoli Tagaeri, Dugakaeri e Taromenane incontattati sono state invase per anni, prima da parte di missionari evangelici, poi delle compagnie petrolifere. Oggi, finalmente, possono sperare di poter tornare  a vivere in pace», commentano nel merito da Survival international.

Soprattutto, lasciare quel petrolio sottoterra permetterà di lottare in modo concreto contro la crisi climatica in corso, alimentata dall’uso dei combustibili fossili.

Sappiamo infatti da tempo che, per limitare il riscaldamento a +1,5°C, almeno i due terzi delle riserve conosciute di combustibili fossili dovrebbe restare sotto terra per porre un freno al cambiamento climatico.