Ntnu, il 60-80% della nostra impronta sul pianeta deriva dai consumi delle famiglie

Il commercio globale degli impatti ambientali: se in Lussemburgo si inquina più che in Cina

La “fabbrica del mondo” esporta gran parte dei suoi beni, consumati altrove: a chi va, dunque, la responsabilità?

[29 Febbraio 2016]

Ministri dell’Economia e governatori di banche centrali da tutto il mondo sono appena tornati a casa dal G20 finanziario di Shanghai con in tasca un manifesto al cerchiobottismo. La crescita mondiale (prevista per il 2016 attorno al 3%) risulta insufficiente e altamente disomogenea, non basta per garantire equilibrio all’attuale modello di produzione e consumo. Incidentalmente, come ricorda l’Ocse, in paesi come l’Italia «la disoccupazione resta molto elevata soprattutto tra i giovani e c’è un’alta percentuale di senza lavoro di lungo termine». Ecco che dal G20 si sostiene finalmente che «da sola la politica monetaria non può portare a una crescita equilibrata». La soluzione offerta sta nel dispiegare «tutti gli strumenti: monetari, di bilancio e strutturali, individualmente e collettivamente». È un richiamo ad accelerare sul fronte della spesa pubblica per investimenti, frenato però dal fronte della sciocca austerità di cui l’Europa teutonica è sempre strenua paladina.

Sulla qualità e la tipologia degli investimenti da privilegiare non sono però giunti dettagli da Shanghai. L’unico segnale concreto è arrivato da un altro ma complementare fronte, quello delle cosiddette svalutazioni competitive. Il governatore della Banca popolare cinese, Zhou Xiaochuan, ha rassicurato i mercati: non è in vista una svalutazione dello yuan, «perché la Cina non ne ha bisogno, visto che il suo surplus commerciale l’anno scorso è stato di 600 miliardi di dollari». Anche in questo caso, l’impatto ambientale di queste ciclopiche transazioni commerciali è stato accuratamente evitato. Ed è un peccato, perché il G20 cinese avrebbe rappresentato una piazza privilegiata per affrontarne le complesse implicazioni.

A sollevarne alcune ci hanno pensato, in via indipendente, un gruppo di ricercatori della Norwegian university of science and technology (Ntnu), che ha recentemente pubblicato sul Journal of industrial ecology l’analisi Environmental impact assessment of household consumption. Il team della Ntnu, come spiegato dalla rivista universitaria Gemini, ha analizzato gli impatti ambientali (emissione di CO2, utilizzo di suolo, materie prime, acqua) di 43 paesi, 5 macroregioni e 200 settori merceologici, mettendoli in relazione con la quota parte relativa ai consumi delle famiglie, in gran parte legati all’utilizzo di beni importati.

La “fabbrica del mondo”, ovvero la Cina, come noto è divenuta nel 2007 (anno cui risalgono i dati utilizzati dai ricercatori) il più grande emettitore di gas serra al mondo. Dunque in massima parte i cambiamenti climatici sono responsabilità della Cina? Se si pensa che gran parte dei beni prodotti dal gigante asiatico (dall’ultimo iPhone alla maglietta venduta nel mercato rionale) sono consumati altrove, il quadro – come già evidenziato dall’economista Giovanni Marin sulle nostre pagine – diventa molto più complesso.

La responsabilità cambia se si osserva dal punto di vista del produttore o da quello del consumatore: «In Cina producono un sacco di prodotti, ma li esportano – spiega una delle autrici della ricerca, Diana Ivanova – se si guarda al consumo procapite l’impronta ambientale della Cina è piccola». Non a caso la Cina, come spiegato da Xiaochuan, nel 2015 ha registrato un surplus commerciale pari a qualcosa come 600 miliardi di dollari.

Rovesciando la prospettiva, come suggeriscono dalla Ntnu, cambia anche la classifica degli impatti ambientali. Per quanto riguarda l’emissione di gas serra procapite, ad esempio, in cima svettano ancora gli Usa (18,6 tonnellate di CO2eq), seguiti dal piccolo Lussemburgo (18,6t) e dall’Australia (17,7t); rispetto a tali vertici l’Italia vanta un impatto quasi dimezzato, pari a 9,6t di CO2eq, e la Cina si ferma a quota 1,8t. Cambiando punto d’osservazione – assumiamo adesso quello del material footprint, il consumo di materiali –, la classifica muta ancora: stavolta il Lussemburgo troneggia con 27,6 tonnellate di materiali consumate procapite all’anno, seguito dall’Australia (26,3t) e dalla virtuosa Norvegia (18,6). L’Italia, con 13,6t, impatta comunque quasi il triplo della media mondiale (4,9t), mentre la Cina è ferma a 5,4t. Davanti a questi dati una domanda sorge spontanea: la qualità della vita in Lussemburgo o Australia è tanto più alta da quella sperimentata in Italia da giustificare una simile sproporzione negli impatti ambientali registrati dai cittadini dei rispettivi paesi?

«A tutti noi piace dare la colpa a qualcun altro, il governo, o le imprese, ma – riassume Ivanova – tra il 60 e l’80% degli impatti ambientali provengono dai consumi delle famiglie. Se cambiamo le nostre abitudini di consumo, questo avrebbe un impatto drastico anche sulla nostra impronta ambientale». Ma fare docce più brevi o ricordarsi di spegnere la luce quando usciamo da una stanza non salverà il pianeta: i più gravosi sono gli impatti indiretti sull’ambiente, ad esempio i 15.415 litri d’acqua stimati come necessari per produrre 1 chilo di carne di manzo, o 17mila che occorrono per 1 chilo di cioccolato. Una soluzione sarebbe consumare meno beni (attività alla quale gli europei dedicano il 13% dei propri bilanci familiari) e più servizi, ma al contempo occorre riconoscere come l’attività manifatturiera sia ad oggi indispensabile per creare buona – e abbondante – occupazione. Consumare meno, consumare meglio rimane uno slogan sempre valido. Peccato che per tradursi in realtà abbisogni di una regia globale, e al G20 non trovino però tempo e interesse per occuparsene.