Microbiota e cervello. I batteri ci mantengono sani ma potrebbero mantenerci giovani?

Due progetti sul rapporto tra microbiota, funzioni cerebrali e invecchiamento

[19 Febbraio 2019]

Storicamente percepiamo i microbi come una minaccia, in particolare per il nostro cervello, ritenuto particolarmente sensibile alle infezioni e alle infiammazioni. Però la nostra visione del mondo microbico si sta evolvendo rapidamente e diamo sempre più attenzione al modo in cui i microbi vivono intimamente con noi e a come ci apportino grandi benefici: il nostro microbiota.

Il nostro corpo pullula di  miliardi di batteri, virus e funghi che vivono insieme a noi e con noi. In particolare, è il nostro intestino a ospitare la maggior parte dei microbi con i quali conviviamo. Il microbiota può essere considerato come un organo a parte: lo acquisiamo alla nascita e lo conserviamo per tutta la vita e influenza la nostra fisiologia e la nostra saluta in modo considerevole, visto che questo mondo vivente che ospitiamo  ha 150 volte più geni del genoma umano. «In realtà – spiegano gli scienziati del progetto Microbiota and Aging –  siamo tutti un ecosistema ambulante, costituito da cellule umane eucariote, da cellule procariote (batteri e archei) e da virus che coesistono e comunicano».

Inizialmente la ricerca scientifica si era concentrata sull’influenza del nostro microbiota sull’immunità e il metabolismo, me i ricercatori fanno notare che «Sempre più elementi suggeriscono che questo microbi possono ugualmente influenzare il funzionamento del nostro cervello ed essere così potenzialmente coinvolti in diverse patologie neurologiche. In definitiva, i nostri intestini ospitano anche la seconda popolazione di neuroni più importante dopo il sistema nervoso centrale: il sistema nervoso enterico».

Il progetto Microbiota and Aging affronta proprio tutti gli aspetti delle interazioni tra microbi e sistema nervoso, anche per «esplorare il ruolo  del nostro microbiota nelle funzioni cerebrali e potenzialmente i disturbi neurologici».  Ora uno studio sui topi suggerisce che la composizione dei batteri nell’intestino è legata alle capacità di apprendimento e alla memoria, fornendo una potenziale via di ricerca su come mantenere il funzionamento cognitivo invecchiando.  Come spiega Horizon, lo studio «Fa parte di un campo di ricerca che esamina il legame tra batteri intestinali e invecchiamento per aiutare le persone a vivere una vita più sana in età avanzata».  Un problema che ci riguarda da vicino, visto che si stima che tra il 2017 e il 2080 la popolazione dell’Unione europea con oltre 80 anni raddoppierà, mentre gli ultrasessantacinquenni passeranno dal 20 a quasi il 30% della popolazione totale.

Ma gli scienziati avvertono che la connessione tra la composizione del microbiota nell’intestino, le funzioni cerebrali e l’invecchiamento non è chiara, con cause ed effetti difficili da stabilire. CI prova Damien Rei, un esperto in malattie neurodegenerative e psichiatriche dell’Institut Pasteur, che, per capire meglio cosa potrebbe accadere negli esseri umani, ha deciso di esaminare i diversi tipi di microbiomi presenti nei topi più giovani e più anziani. . I topi più anziani avevano all’incirca un anno e mezzo , equivalenti a oltre 60 anni umani.

Quello che ha scoperto lo scienziato francese è sorprendente: quando Rei ha trasferito i batteri intestinali nei topi più anziani nei  topi giovani adulti, c’è stato un forte effetto sulla riduzione dell’apprendimento e della memoria. Quando ha fatto l’opposto, trasferendo il microbiota dei topi giovani nei topi più anziani, le capacità cognitive dei vecchi roditori sono tornate alla normalità

Rei sottolinea: «Nonostante fossero animali anziani, dopo il trasferimento di microbiota le loro capacità di apprendimento erano quasi indistinguibili da quelle dei topi adulti giovani. Questo indica una forte comunicazione tra l’intestino e il cervello. Quando ho visto i dati, non potevo crederci. Ho dovuto ripetere l’esperimento almeno un paio di volte».

Inoltre, osservando ciò che avveniva ai percorsi neuronali della comunicazione tra l’intestino e il cervello quando il microbiota dei topi vecchi è stato trasferito ai topi più giovani, il team di Microbiota Anging  è stato in grado di manipolare questi percorsi e questo consentirebbe di «bloccare o imitare gli effetti del microbiota invecchiato».

Lo studio di  Rei non è stato ancora pubblicato (ma dovrebbe uscire entro l’estate) e il suo team sta esaminando anche il microbiota intestinale delle persone anziane e in quelle  affette dal morbo di Alzheimer, ma Rei ha detto  ad Horizon che «E’ troppo presto per rivelare ulteriori dettagli su questa ricerca». Poi ha agiunto che «E’ una grande sfida tradurre i risultati nei topi alle persone, non solo a causa delle significative barriere etiche, ma anche delle differenze di fisiologia. Il sistema immunitario di un topo è molto diverso da quello di un essere umano.  Anche il microbiota intestinale è molto diverso, perché i topi mangiano cose molto diverse da quelle che mangiamo noi».

La ricerca è ancora lontana dalla scoperta di metodi per combattere malattie neurodegenerative come l’Alzheimer e Rei sottolinea: «In effetti, non ci sono prove convincenti che guardare al microbiota intestinale sia la strada da percorrere. Ma credo che lo studio sui topi apra le porte a ulteriori indagini sui meccanismi che sono dietro i cambiamenti legati all’età. I dati sui topi sono stati davvero il primo passo e per noi è stato un modo per capire il potenziale di manipolazione del microbiota intestinale».

Thorsten Brach, dell’università di Copenhagen, che ha lavorato al progetto Gut-InflammAge  che ha esaminato il legame tra i microbi intestinali, infiammazione e invecchiamento,  conferma che «Definire il legame tra batteri intestinali e invecchiamento non è semplice. E’  noto che l’invecchiamento è un processo multifattoriale e, in particolare, è difficile, soprattutto quando si tratta del microbioma, separare gli effetti dell’invecchiamento da tutti gli altri aspetti.

Per esplorare il potenziale impatto di diete per un invecchiamento sano che comportano anche  il digiuno, i team di Gut-InflammAge, guidato da Manimozhiyan Arumugam, ha studiato gli effetti di una lieve restrizione calorica periodica nei topi e, inaspettatamente, ha scoperto che i topi sottoposti a diete a basso contenuto calorico accumulano più grasso corporeo. I ricercatori ipotizzano che questo potrebbe essere dovuto all’eccesso di cibo assunto tra i  periodi di digiuno, ma hanno anche notato un lieve “ringiovanimento” del sangue dei topi anziani, che somigliava di più a quello dei topi più giovani.

I ricercatori hanno osservato una differenza tra la composizione del microbiota nei diversi gruppi, ma nel complesso le differenze riscontrate non erano abbastanza grandi da suggerire più di una normale variabilità tra gli individui. Quindi, i ricercatori sono arrivati alla conclusione che «La dieta e lo stile di vita sono più critici rispetto all’età e al genere nel modellare il microbiota», anche se Arumugam fa notare che «Sarebbe stato più interessante seguire i cambiamenti nei microbiomi delle singole persone nel tempo».

Quel che è certo è che c’è ancora molto da studiare per realizzare un quadro accurato del legame tra microbiota e processo di invecchiamento. Come ha evidenziato Arumugam «L’analisi del microbioma è in ritardo rispetto alla ricerca genetica, con la causa e l’effetto di una malattia che è più difficile da stabilire rispetto ai geni. Ma la ricerca sta gradualmente migliorando la nostra comprensione. Sebbene lo studio del mio team non abbia fatto “progressi”, ha contribuito a fornire maggiori informazioni in questo settore e sollevato domande rispetto alle precedenti ipotesi».

Rei conclude: «la ricerca in questo campo potrebbe alla fine cambiare il modo in cui vediamo l’invecchiamento, considerandolo più fluido di una strada totalmente a senso unico, senza possibilità di tornare indietro, tranne che nei film come Benjamin Button».