L’Elba dopo la febbre spagnola. La guerra, foche, tartarughe, tonni e pescecani

Continua la saga familiare dei “Tarantini”, prima, durante e dopo la Seconda Guerra Mondiale .

[23 Marzo 2020]

Pubblichiamo la seconda delle tre parti del racconto iniziato con “L’isola d’Elba al tempo della Spagnola. La storia di un’epidemia che 100 anni fa cambiò il destino di una famiglia”. Buona lettura.

Balene e Camice Nere

Intanto sull’Isola seminavano i poveri paesi di monumenti ai disgraziati che non erano tornati dalla grande guerra, sperando che quei nomi sui muri e quelle statue sarebbero state l’ultima concessione alla retorica di una patria che non risaliva mai i salti delle vigne e che, come grandi amuleti di marmo, avrebbero impedito altre mattanze. Poi l’Isola si consegnò, docile come sempre, al fascismo, le teste calde vennero tenute d’occhio, arrestate quando era il caso e sempre dopo ogni scazzottata con gli squadristi. Come quella epica con i minatori rossi di Rio con rinforzi anarchici locali che spedì diverse camice nere e carabinieri del Regno ad arrossare l’acqua di una fontana di Portoferraio e il Tarantino a cacare olio di ricino in galera.

Giovanni finiva in gattabuia prima e dopo le visite del Duce all’Elba e a ogni disperata scritta sui muri. Il suo posto al mercato lo prendevano i figli e presero anche confidenza col pesce e la pesca, uscendo da quella baia murata dai Granduchi per girare verso lo Scoglietto che prende gli schiaffi della tramontana e apre l’Isola al Mondo.

E da lì, da quei guzzi stinti di assi, calafato, cime e catrame, i Tarantini scoprirono l’Elba. Dimenticarono le “C” aspirate che li facevano sentire ancora toscani in un’isola di stranieri, per conoscere i marinai di lungo corso che dalla Marina raggiungevano le Americhe e crescevano figli che sospettavano di altri e che trovavano due anni più grandi ad ogni loro ritorno, E velieri gonfi di vino torbo, forte e ignorante, che partivano verso Genova a corrompere i leggeri vini del settentrione. E contadini con le loro parole ancora chiuse nel ricordo della vicina Corsica. E spagnoli e secondini di Portolongone separati da una piatta palude dai capoliveresi che addolciscono la “c” in “g”, ma hanno l’asprezza e la durezza di chi scava la montagna di ferro e calamita. E infine i minatori di Rio, che gli insegnarono che bisogna abbassare il capo solo per poterlo un giorno tirare su di scatto.
Ma era il mare, e quella terra che dal mare si solleva, e le bestie che sopra e dentro si muovono, che li facevano campare. E nell’acqua salata legarono le loro vite a una promessa che non si dissero mai: furono sempre pescatori di costa. Marinai spaventati dell’orizzonte e dell’abisso, commercianti di occasioni che non si fermarono nemmeno davanti al baratto e a una povera gallina succhiata dalla martora.

E poi arrivò la balena, una delle tante che annusavano il golfo facendo mostra di olio e di carne irraggiungibili e poi si ributtavano nello sprofondo insondabile dalle reti e dall’arpione. Le balene e il capodoglio che sfioravano navi e barche, così grandi e metallici da pare immobili e interminabili nel loro lento affondare, scure nel mare scuro, indifferenti alla paura dei pescatori di finire nella loro tenebra inviolabile di sale. Ma questa balena scelse la riva e si adagiò, gigantesca, nella sabbia sporca di fango del golfo; la trovarono morta una mattina, una montagna senza più agonia. La trovarono i Tarantini. Il difficile fu trasportare la montagna dall’altra parte del Golfo, verso la città famelica. Fu lavoro di corde, muscoli e cervello e la balena si mosse faticosamente con un risucchio di rena e dolcemente si fece portare verso la sua enorme macelleria. E poi fu lavoro di coltelli affilati, mannaie e falò per estrarre l’olio prezioso e una fila di acquirenti e curiosi del mostro. Ma insieme a loro arrivarono stivali arroganti, manganelli e fez a sequestrare quel falso pesce e a reclamare la spropositata immensità per il bene dell’autarchia e dell’Impero. Neri gabbiani che avevano osservato da lontano il lavoro e ora arrivavano famelici a spartirsi la facile preda dell’altrui fatica.

I Tarantini, in cambio, di controvoglia, furono comunque lasciati ad affogare nel grasso bianco e nella carne rossa, a spolpare ossa e fanoni di gigante da trasformare in colla e corsetti, ad affettare per poche lire di salario la ricchezza del Duce, a ripulire viscere enormi prima che il tanfo ammorbasse l’intera città.

Ma la balena era troppo grossa perché qualcuno potesse pesarla. E così nessuna camicia nera seppe mai che molta della carne e dei barili d’olio che dovevano uscire dall’unta baracca per finire al federale e al podestà, nottetempo venivano venduti a trafficanti, operai e donne che bruciarono balena liquida per mesi per rischiarare le notti polverose di carbone. Così i Tarantini si levarono la soddisfazione di essere pagati dal Fascio per fare mercato nero a caro prezzo, una tentazione di inganno così saporita che non li avrebbe più abbandonati.

La balena si trasformò in mazzi di banconote furtive, carretti, corbe e in un banco di mercato più grosso e di marmo. Il pesce arrivava abbondante e occorreva smerciarlo e i Tarantini si alzavano all’alba per salvare dal sole sardine, acciughe, zerri, frugaglie e lacerti che trascinavano su strade polverose fino a Poggio e Marciana. Fu allora che impararono a usare le magiche polverine per arrossire le branchie anemiche dei pesci, che iniziarono a nascondere il pesce opaco sotto quello lucido di freschezza e che anche Marciana Marina aprì diffidente le porte e il porto che più tardi non avrebbero più fatto uscire Lampo e Veleno.

Guerra e fughe

La seconda guerra venne poco dopo sulle ali di megafoni gracchianti e di adunate scure che loro mancarono. Lampo cercò di scamparla con un’iniezione di benzina in un occhio che rese per tutta la sua vita una tortura il suo vorace leggere tutto quello che non era letteratura, ma fu imbarcato ugualmente su una nave grigia che fu subito affondata in porto, nel mare lontano dell’Istria.

Veleno intanto scopriva il pugilato e la sua rabbia lo portava su ring di paese a vincere contro imitazioni di campioni. Gli fu fatale un incontro fasullo, organizzato per festeggiare una sua vittoria nazionale subito epurata. Fu messo sul ring davanti a un fascista senza un occhio, ma di una categoria superiore. Veleno lo atterrò a ogni ripresa senza fatica. Ma l’arbitro considerò anche quello un affronto al Duce e dichiarò vincitore il mancato vendicatore orbo. Veleno lo compensò con un gancio che spedì l’arbitro fuori dal ring e generò una rissa memorabile tra il pubblico non pagante che mise fine alla sua breve carriera di boxer con una squalifica a vita.

Ma Mussolini ormai rumoreggiava in Russia, con il suo esercito proletario e scarpe di cartone, a conquistare il deserto gelato di Stalin. Spuntarono le tessere per pane e companatico e Veleno cominciò ad andare per sentieri e scannafossi per vendere pesce e scambiarlo porta a porta e vigna vigna. Conobbe contadini diffidenti del mare, ma golosi di pesce, senza reti, ami e pietà, con mogli già vecchie a trent’anni e impudici asini esibizionisti. E il vino pesante e la borsa nera cominciarono a rendergli difficili la vita e l’amore. Trasportava le ceste scamose per chilometri spossanti, nella maniera meno faticosa, come le donne, in bilico sulla testa. Ed è a quelle corbe e a quelle strade che dette sempre la colpa della sua stempiatura giovanile, poi matura calvizie, che copri col basco eterno della sua famiglia.

Ma la guerra della sconfitta arrivò anche al mitragliere Veleno, lo artigliò con una cartolina che non poteva leggere e lo spedì tra le bombe e la distruzione di Cassino. Scappò con una salutare diserzione, risalendo verso Roma e sfuggendo prima ai tedeschi in fuga, poi ai partigiani che non lo credettero compagno, ma ebbero pena di vedere nei suoi occhi grandi e allucinati la loro stessa miseria che non valeva una pallottola: lo rinchiusero in una spelonca senza serratura e lo lasciarono fuggire una mattina, lasciandogli l’illusione di averlo fatto da solo.

La fuga si arrestò solo a Piombino, davanti alla sua Isola. Ci arrivò quasi nudo, con la divisa sbrindellata in stracci che il più grande gli copriva appena le vergogne. Al porto aspettò una nave disperata, disposta a caricare la paura di fare la fine dello Sgarallino, il nero piroscafo che un anno prima, lasciando stupefatto lo stesso sottomarino inglese del siluro omicida, aveva trascinato con sé mille elbani adagiandoli a 40 metri sul fondo. Fu allora che incrociò lo sguardo indifferente di una ragazza minuta, nipote di un cileno che aveva conosciuto nei suoi commerci marinesi, e seppe che le avrebbe asfissiato la vita con un amore mai corrisposto e un’ingiustificata gelosia. Meno di 10 anni dopo la avrebbe sposata all’alba nella chiesa di Marciana Marina, per mettere insieme due solitudini intollerabili e per far tacere le chiacchiere di paese. Festeggiarono quelle povere nozze nascoste insieme a pochi amici. Mangiando zerri marinati e coniglio in umido con le olive, nell’unica stanza affacciata sulla strada che avrebbe fatto loro da casa per qualche anno e dove Jole avrebbe partorito il loro primo figlio nel 1955.

Lo zio Lampo

Il giorno del battesimo Lampo aprì una valigia marrone e rovesciò nella culla del primo nipote un milione di lire, una pioggia di ricchezza scandalosa che Jole considerò un brutto presagio e che fu rimessa nella valigia e restituita appena passata la sbornia colossale. Lampo aveva abbandonato Portoferraio, squassata dai bombardamenti e orfana delle acciaierie, dopo la morte del Tarantino e i suoi due funerali, il primo con le bandiere degli anarchici, dei comunisti e dei socialisti, il secondo con il catafalco vuoto e seguito dalle suorine dell’ospedale e dai senza famiglia, a ringraziamento, riparazione e invito al Signore ad accogliere comunque, almeno in Purgatorio, quel bestemmiatore che portava di nascosto il pesce all’ospedale per i bimbi affamati della guerra.

Lampo si era sistemato anche lui alla Marina. Prima aveva pescato con le bombe che venivano fabbricate a migliaia con l’esplosivo delle mine galleggianti, spargendo sull’isola mutilazioni e grucce di invalidi. Si spingeva a bombardare il mare fino a Capraia, ma smise dopo aver fatto saltare tutti i vetri del paese e del carcere con un botto di sterminio che gli empì la barca di grandi lecce sbalordite e lo costrinse a un esilio da quell’isola rossa di vulcani spenti che durò fino alla sua morte. Poi aveva trafficato in pesce con Piombino e Milano, arricchendosi ogni giorno di più. Comprò una casa dall’altra parte della strada dove stava Veleno, allo sbocco di una piazza sul mare, con addirittura il gabinetto, una sala, la cucina, due camere e un baule verde con le costole di metallo d’argento nel quale stipava gli enormi fogli rossi da 10.000 lire che non avrebbe mai chiuso in banca. La superstizione terrorizzata della moglie gli impedì di comprare per poche lire una grande villa che domina ancora il paese, ma infestata da fantasmi di cecchini tedeschi e di “mongoli” di Crimea, che si ritirarono e tacquero solo quando venne ad abitarla una Contessa grossetana che andò sposa a un Ministro della pubblica istruzione. E’ probabile che allora Lampo fosse l’uomo più ricco dell’Isola. Aveva una grande pescheria, ma era in una stanza scura e con una sola finestrella chiusa da un’inferriata che faceva e accumulava barattoli di acciughe salate che intossicavano di salamoia i muri, appendeva bottaraga di tonno e leccia ed era tra i pochi a riuscire a conciare il mosciame, a trasformare in salume prelibato il filetto di delfino. Quell’antro era il ritrovo di cannibaleschi buongustai e dei primi turisti in cerca di prodotti nostrali e sapori forti e presto proibiti.

Foche e tartarughe

Nemmeno 10 anni dopo, fu in quella pescheria, ormai già perduta da mio zio che ne era diventato da padrone garzone, che vidi la mia prima e unica vacca di mare. Avrò avuto 7 anni quando Veleno mi portò a vedere un “pesciaccio che quando si vede bisogna ammazzarlo, perché buca le reti”, Sul pavimento di cemento c’era un enorme essere grasso, con la pancia bianca all’aria, baffi metallici e una smorfia da coniglio, una delle ultime foche monache sterminate nell’Arcipelago, pronta alla vendita per diventare braciole e spezzatino. Ero di fronte a criminali inconsapevoli, ai distruttori della bellezza più rara e alla distruzione degli esseri pacifici che riempivano le notti delle grotte isolane di lamenti materni. Ma nessuno di noi lo avrebbe saputo e capito per almeno altri dieci anni.

Così come non sapevamo che le verdi tartarughe della nostra infanzia, legate per giorni al moletto del Pesce a spurgare la loro anima di rettili e il veleno delle meduse, non avevano scavato spiagge e attraversato profondità solo per finire in brodo e spezzatino nelle pentole dei ristoranti, ma dovevano tornare al mare per salvarlo ed essere salvate. Animali pazienti e sereni che ci trasportavano sott’acqua, attaccati al loro scudo corazzato, fin dove lo consentiva la cima che ne impediva la fuga. Eppure, anche dopo i cruenti scannamenti sul molo, dove le teste dal becco temibile mordevano e ci guardavano per molto ancora dopo essere state staccate dal corpo, con i grandi occhi alieni pieni di perdono rotondo, nessuno di noi ebbe mai la pietà e il coraggio di tagliare una di quelle cime e di restituire quelle pinne squamose al mare.

Non avevamo orrore della crudeltà dei pescatori, noi stessi, con i nostri inseparabili coltelli che ci facevano sentire già uomini, eravamo pescatori di pozze, sterminatori di gamberetti e di perchie, palombari di conchiglie e gnacchere, scovatori di dragane nascoste nella sabbia e di granchi frulloni nelle tane, ladri di muscoli e di aragoste nei vivai, impanatori di ogliere che i signori chiamavano attinie, imitatori di reti e fiocine. Imparavamo così che il mare era lotta, profondità, pericolo e nessuna pietà. E nessuno sapeva insegnarci la bellezza. I pescatori non avevano imparato parole per farlo e tenevano gelosamente per loro quell’emozione inesplicabili, quel cedimento di virilità, vergognandosi della commozione dell’albe e dei tramonti e dello strano tremito dell’anima che li prendeva quando la palla rossa del sole del non ancora mattino illuminava il cerchio delle reti e i pesci brulicanti sotto le lampare, e l’aria nera era attraversata dal volo sottile e arcuato delle berte, piangenti come bimbi nelle culle. Eppure, era solo allora che scordavano davvero il puzzo di piedi e nafta delle loro cuccette anguste e, fumata l’ultima Alfa della notte, si sentivano davvero vivi e liberi in attesa della fatica e del freddo umido che doveva venire.

Era una tenerezza ruvida, un cavalluccio di mare spettinato e colorato di strisce che Veleno ci portava in regalo dopo aver sputato i polmoni in una notte di pioggia e onde.

Tonni e pescecani

Ma la pesca più cruenta ci venne tenuta segreta e lontana, era pesca da uomini e squali. Le tonnare dell’Enfola e del Bagno chiudevano il golfo di Procchio in un festa barbara che iniziò all’Elba nel 1600 per volere dei Granduchi di Toscana che chiamarono i Rais dalla Sicilia a insegnare la mattanza a quegli isolani minori che fino ad allora si erano accontentati di palamite. Finì bruscamente nel 1958, l’anno dopo la nascita del secondo figlio di Veleno, con una bufera che si portò via le ultime reti dell’Enfola. Non era pesca per tutti e da aprile a San Pietro e Paolo solo i più forti e coraggiosi erano chiamati sulle barche tozze e nude di pittura a stendere le 40 ancore da 800 chili e le mille mazzere di roccia che tenevano giù due miglia di rete che portavano i tonni al loro suicidio abitudinario nella camera della morte. Dopo il leva e molla di rete, era un frullare di pertiche e uncini per trascinare i pesci a bordo. E il mare ribolliva di code e sangue rosso e i tonni soffocavano ammucchiati nelle stive delle barche, sotto il loro stesso peso. E i più giovani e incoscienti, gli spacconi senza famiglia, venivano mandati nella rete ad agganciare alle chiappatelle gli animali da 300 chili. E a volte, nascosto nella spuma, veniva il pescecane, la Tacca di Fondo degli elbani, lo squalo bianco anch’esso prigioniero e cacciatore, impazzito di sangue e paura, con le mascelle taglienti da evitare e da uccidere subito.

Le tonnellate blu di pesce venivano allineate senza rispetto sul piazzale di fronte al golfo della loro disgrazia, per subire un rude lavacro di purificazione che le avviava a una rapida macellazione che non scartava nulla, nemmeno le ossa spolpate della testa che andavano macinate a far crescere il vino nelle vigne.

E il tonno dava latte e uova, cuore a buon mercato e tonnina salata da mangiare con cipolle e pomodori in interminabili colazioni di briachi. E finiva ingoiato nella tonnara, poi veniva inscatolato in barattoli da signori con un’etichetta blu profondo, con sopra uno strano stemma con pretese nobiliari, con un vascello armato di vele e remi sottili come grissini e sostenuto da due aquile arancioni appoggiate su una fronda di ulivo e una di quercia: “TONNO DI CORSA – all’olio puro di oliva – MARCA CARAVELLA – Tonnare dell’Elba – Portoferraio”.

Un’etichetta che Veleno non lesse mai, né mai quel barattolo di metallo arrivò nella sua casa, dove invece furono una benedizione gli scarti della gola, le interiore scordate e subito salate, e la parte da tonnarotto che gli spettava.

Da “Veleno vero – Storie, ricordi e bugie di una famiglia elbana”
“Terre Blu – Protagonisti, episodi e racconti di mare”
Le Balze 2005 (Quaderni di Legambiente)
A cura di Sebastiano Venneri