Gatti: predatori e animali da compagnia, un doppio status che richiede una nuova ecologia

Come animali domestici sono parte inestricabile della società umana, ma il loro lato selvaggio li pone fuori dal nostro controllo

[12 Marzo 2020]

Chi ha un gatto – come chi scrive – sa bene che sono animali sorprendenti e che racchiudono nature diverse: possono passare in un piccolo pertugio e poi sembrano triplicare (la mia gatta anche quintuplicare) la loro stazza non appena si stendono su un divano e in un battito di ciglia passano dall’essere micetti giocherelloni e amorevolmente premurosi a distaccati o irritati predatori, oppure da svegli e iperattivi, improvvisamente diventano i più pigri esseri del mondo.
Quando greenreport.it ha pubblicato studi sulla pericolosità per la piccola fauna dei gatti domestici e rinselvatichiti ci siamo attirati le ire dei fan dei gatti che vedono solo il loro aspetto dolce e i complimenti di chi li vede come una minaccia per la biodiversità sostenuta a bocconcini e croccantini dagli esseri umani
Ora lo studio “Our wild companions: Domestic cats in the Anthropocene”, pubblicato su Trends in Ecology & Evolution da Sarah Crowley, Martina Cecchetti e Robbie McDonald dell’Environment and sustainability institute dell’università di Exeter, ci dice che, se consideriamo la storia del gatto, tutte queste contraddizioni hanno senso, perché a differenza di altre specie da compagnia, «il gatto mantiene lo status liminale sia come animale domestico sia come animale selvatico». Come spiega l’enciclopedia Treccani, «liminale. In psicologia e fisiologia, di fatto o fenomeno che è al livello della soglia della coscienza e della percezione».
Insomma, come sottolinea su Anthropocene Cara Giaimo, «Mentre i tratti domestici dei gatti li rendono una parte inestricabile della società umana, i loro tratti selvaggi li tengono al di fuori del nostro controllo». E gli autori dello studio aggiungono che «Se vogliamo gestirli, dobbiamo capirne entrambe le parti».
Dallo studio “The palaeogenetics of cat dispersal in the ancient world” pubblicato nel dicembre 2017 su Nature Ecology & Evolution da un folto team internazionale di ricercatori, emerge che i gatti si sono auto-addomesticati circa diecimila anni fa, decidendo di frequentare le comunità umane perché la nostra abitudine di conservare i cereali attirava i topi dei quali si nutrono. Quando i nostri antenati hanno visto quanto qui piccoli felini fossero bravi a tenere sotto controllo i roditori che saccheggiavano i loro raccolti, hanno cominciato a portarseli dietro durante le loro migrazioni e anche via mare. I gatti c’erano sempre quando abbiamo fondato nuovi insediamenti e, alla fine, il nostro rapporto con questi esseri selvatici è diventato così forte che ce li siamo portati in casa, li abbiamo fatti diventare coinquilini dei nostri condomini e alla fine star di Facebook e di Youtube.
Ma anche se per noi il mondo è cambiato molto negli ultimi 10.000 anni, per i gatti no. Sì, è vero che hanno imparato a miagolare con e per gli esseri umani come non fanno con i loro simili, che si strusciano intorno alle nostre caviglie e ronfano c quando ci saltano sulla pancia mentre siamo in poltrona e che ormai sanno mangiare dalle scatolette i ricercatori dell’università di Exeter fanno notare che, a differenza di cani e cavalli, «i gatti domestici mostrano comparativamente pochi cambiamenti morfologici rispetto ai loro antenati selvatici». Inoltre non hanno davvero bisogno dell’uomo, le comunità di gatti possono ancora prosperare da sole, come può dire chiunque conosca una colonia di gatti selvatici o come sanno bene scienziati e governi che combattono – come in Australia, Nuova Zelanda, Hawaii e molte altre isole – contro migliaia e milioni di gatti rinselvatichiti che stanno sterminando la fauna autoctona.
Gli autori del nuovo studio dicono che i gatti «mantengono una doppia identità. Il doppio status della specie come predatore selvatico e compagno domestico è alla base di una divisione tra le persone. I conservazionisti considerano il lato selvaggio dei gatti come il loro tratto più importante e pensano che quelli non registrati debbano essere gestiti di conseguenza: intrappolati e sterilizzati, trasferiti o addirittura eradicati letalmente dai territori selvaggi. Nel frattempo, i difensori dei felini ci esortano a trattare tutti i gatti, compresi quelli selvatici, con la compassione che di solito mostriamo ai nostri compagni domestici».
Secondo i ricercatori britannici, la strada giusta sarebbe quella di riconoscere entrambe le caratteristiche dei gatti e mettere insieme le opinioni e le ricerche degli esperti in tutto quello che riguarda i gatti, dalla scienza veterinaria e le malattie zoonotiche all’ecologia e alla sociologia, «al fine di comprendere come i gatti influenzano altre specie e coinvolgere i proprietari di gatti in una politica di ricerca e testing», come fatto nello studio “Prioritizing cat‐owner behaviors for a campaign to reduce wildlife depredation” pubblicato nell’aprile 209 su Conservation Science and Practice da un team di ricercatori neozelandesi e britannici.
Gli autori del nuovo studio pubblicato su Trends in Ecology & Evolution scrivono che «Un’ecologia interdisciplinare degli animali da compagnia può aiutarci a stimolare le relazioni tra tutti questi problemi e prendere buone decisioni di gestione riguardo a questa creatura che oltrepassa i confini».
Crowley, Cecchetti e McDonald fanno notare che anche noi esseri umani non siamo semplici: «Le persone che si identificano come ambientalisti spesso mantengono i gatti come animali domestici». E la Giaimo conclude che tutto questo ha un senso: «Chi può resistere guardando una creatura parzialmente selvaggia fare un pisolino in un luogo soleggiato?»