Sudan nel caos: si è dimesso il premier Abdallah Hamdock, brutali violenze di esercito e polizia

Il primo ministro ha gettato la spugna di fronte alle nuove proteste popolari che durano da giorni

[4 Gennaio 2022]

Meno di due mesi dopo essere tornato al potere, il primo ministro del Sudan Abdallah Hamdok si è dimesso: ha detto di aver «Provato di tutto» per il suo paese dal disastro ma ha ammesso di aver fallito.

Dal colpo di stato militare del 25 ottobre, la brutale repressione delle manifestazioni da parte di esercito e polizia  ha ucciso quasi 60 persone, ma il  30 dicembre è partita una nuova grande mobilitazione popolare a Khartoum  per chiedere le dimissioni di Hamdok e la fine del golpe   e nulla sembra più poter scoraggiare i manifestanti decisi a liberarsi della dittatura militare, nemmeno i container piazzati di notte sui ponti dai militari per impedire l’accesso a Khartoum, né il filo spinato che sbarra le strade principali della capitale

I gruppi mobilitati dai Comitati di resistenza popolare, il nucleo della rivoluzione del 2019 che fece crollare la trentennale dittatura di Omar al-Bashir, hanno marciato in corteo nei loro quartieri, convergendo verso i ponti bloccati per accedere al centro e dove l’esercito aveva dispiegato nuovi uomini e mezzi  per impedire la manifestazione. Se sui grandi ponti era difficile passare, i manifestanti hanno attraversato il Nilo su due piccoli ponti ancora aperti al traffico, ma hanno trovato le strade che portano ai centri del potere chiuse dai militari che hanno anche telecamere sulle arterie principali, mentre il viale che porta all’aeroporto è interrotto da barriere di filo spinato. Inoltre, unità di polizia, mitra alla mano, regolano la circolazione dei veicoli che si avventurano verso il cuore della capitale.

Il governo ha anche  gradualmente interrotto l’accesso a Internet in tutto il Sudan  e un gruppo di manifestanti che era riuscito ad avvicinarsi al complesso presidenziale è stato prima affrontato con le armi caricate con proiettili veri e poi respinto brutalmente. Nuvole di gas lacrimogeni si sono alzate su alcuni quartieri e si sono sentiti spari di kalashnikov per gran parte del pomeriggio del 30 dicembre. Sono stati segnalati arresti eseguiti con violenza anche nelle abitazioni, soprattutto nelle periferie popolari della capitale. La polizia ha anche fatto irruzione nei locali dei canali panarabi al-Arabiya e al-Hadath, sparando lacrimogeni contro i dipendenti. Al-Arabiya ha denunciato che molti dei suoi giornalisti sono rimasti feriti, ad altri sono stati confiscati gli smartphone. I poliziotti hanno impedito al  canale locale al-Sharq di diffondere qualsiasi tipo di notizia.

Secondo un comunicato del sindacato dei medici democratici, negli scontri del 30 dicembre sono stati uccisi a colpi di arma da fuoco 4 manifestanti a Omdourman, un grosso sobborgo nord-occidentale della capitale. I feriti sono decine e i militari hanno impedito alle ambulanze di avvicinarsi alle vittime. Il sindacato ha accusato le autorità di attuare «Massacri contro il popolo sudanese». Al tramonto del 30 dicembre, a Khartoum e nelle altre 10 città del Sudan  dove si sono svolte manifestazioni, le strade dei centri urbani si sono svuotate perché i Comitati di Resistenza hanno chiesto ai manifestanti di ritirarsi e hanno fissato per  il 6 gennaio una nuova mobilitazione di massa.

Ma le manifestazioni sono continuate anche se nell’ultima settimana del 2021 polizia ed esercito avevano arrestato i leader più in vista dei Comitati di resistenza, soprattutto dove sono meglio organizzati, a nord di Khartoum e a Omdurman, oltre il Nilo. Dal 23 dicembre i  servizi di segreti hanno anche “temporaneamente” il diritto di monitorare, arrestare e detenere i civili, cosa che non era più avvenuta dalla caduta del regime di Omar al-Bashir.

Oltre alle morti e allo spegnimento del telefono e di Internet, le forze dell’ordine sono accusate anche di aver fatto ricorso a partire da dicembre a un nuovo strumento di repressione: lo stupro. Secondo l’Onu, almeno 13 manifestanti sono state violentate dai militari. Ogni giorno e in ogni quartiere, i Comitati di resistenza che organizzano le manifestazioni annunciano nuovi arresti o sparizioni di militanti.

Il 31 dicembre un consigliere del generale Abdel Fattah Abdelrahman al-Burhan, il capo di Stato de facto golpista del Sudan, ha detto sprezzantemente che «Le proteste sono uno spreco di energia e tempo e non porteranno a nessuna soluzione politica».

Ma i militanti democratici non sembrano più voler arrivare alla resa dei conti finale con i militari che cercare un accordo che si è rivelato impossibile.Manifestazioni e scontri, con altri morti e feriti sono continuati anche nei primi due giorni del nuovo anno e alla fine, il 2 gennaio, Abdallah Hamdok ha annunciato con un lungo discorso alla televisione di stato le sue dimissioni da Primo Ministro: «Ho cercato di evitare che [il Sudan] scivolasse nel disastro, mentre oggi sta attraversando una pericolosa svolta che ne minaccia la sopravvivenza […] vista la frammentazione delle forze politiche e i conflitti tra le componenti della transizione. Nonostante tutto ciò che è stato fatto per raggiungere il consenso, […] questo non è avvenuto. Le posizioni di civili e militari sono troppo inconciliabili perché si arrivi a un consenso per porre fine allo spargimento di sangue».

Questo ex economista dell’Onu, che dopo la caduta di al-Bashir aveva ottenuto la cancellazione del debito del Sudan e la fine del suo isolamento sulla scena internazionale, non ha conosciuto tregua dopo il colpo di stato militare del 25 ottobre 2021, quando il suo principale partner nel governo di transizione militare/civile il capo dell’esercito Burhan, lo fece mettere agli arresti domiciliari insieme a quasi tutti i ministri civili delle autorità di transizione, ponendo fine brutalmente – prima che il potere passasse ai civili – al traballante governo formatosi nel 2019, il giorno dopo la caduta della dittatura fascista di al-Bashir.

Un mese dopo il golpe, esteso il suo mandato alla guida del Paese per altri due anni, il generale Burhan ha reinstallato Hamdok al suo posto di primo ministro, ma solo dopo aver silurato i ministri  che erano tra i più attivi sostenitori di un potere civile, in particolare all’interno del Consiglio di sovranità. Da allora Hamdok da eroe della resistenza è diventato agli occhi dei sudanesi il “traditore” che ha aiutato i militari a facilitare il ritorno del vecchio regime.

Gli scontri sono ripresi con forza il primo gennaio, in occasione del 66esimo anniversario dell’indipendenza del Sudan e nel suo messaggio al popolo sudanese il rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per il Sudan, Volker Perthes aveva sottolineato: «L’Onu resta impegnata a sostenere il popolo sudanese nella realizzazione delle sue aspirazioni per un Sudan democratico e stabile. I grandi slogan della rivoluzione sudanese (Libertà, Pace e Giustizia) una volta hanno ispirato il mondo, e l’attuale resistenza nonviolenta del popolo sudanese sta ispirando ancora una volta tutti i popoli amanti della pace del mondo. Continuiamo il nostro attento monitoraggio della situazione e la nostra cooperazione per aiutare a stabilire la società giusta e pacifica che il popolo sudanese merita».

Il 2 gennaio, mentre Hamdok scriveva probabilmente il suo discorso di resa e addio, i militari hanno cercato ancora una volta di soffocare la mobilitazione popolare di migliaia di sudanesi sono scesi in strada e le forze di sicurezza hanno ucciso altre due persone.

Khartoum è da diversi giorni isolata dai suoi sobborghi e le forze dell’ordine, arroccate su mezzi blindati armati di mitragliatrici pesanti, tengono d’occhio i passanti. Per tutto il pomeriggio di domenica i sostenitori del potere civile hanno scandito slogan come “I soldati in caserma” e “Il potere al popolo”, mentre giovani in motocicletta attraversavano la folla per evacuare i feriti. I manifestanti chiedono che il 2022 sia “l’anno della resistenza continua” e della giustizia per chi è stato  ucciso dopo il golpe e per gli oltre 250 civili uccisi durante la rivoluzione del 2019, spesso morti a causa delle ferite alla testa provocate dai bastoni con i quali le forze dell’ordine picchiano regolarmente i manifestanti.

Ormai l’esercito, che controlla da sempre l’economia del Sudan – uno dei Paesi più poveri del mondo – a partire dai giacimenti di petrolio e gas – è diventato il principale nemico del suo stesso popolo e i manifestanti non vogliono «Né partenariato, né trattativa» con i militari. D’altronde si tratta di un esercito che ha dietro alle spalle una sanguinosa storia di golpe, repressioni, torture, appoggio all’estremismo islamista, ma che non riesce a domare (anzi la attizza) la rivolta e gli scontri etnici nel Darfur  e che ha perso la ultraventennale guerra contro la guerriglia del Sudan People’s Liberation Army che nel 2011 ha portato all’indipendenza del Sud Sudan e alla perdita di gran parte delle risorse petrolifere che erano alla base del regime cleptocratico di al-Bashir e dei militari.

Gli europei e il segretario di Stato americano Antony Blinken hanno già espresso la loro indignazione per la brutale repressione attuata dai militari e tutti invocano il ritorno al dialogo come presupposto per la ripresa degli aiuti internazionali, di nuovo bloccati dopo l’ultimo colpo di Stato. Blinken ha avvertito Burhan che «Gli Stati Uniti sono pronti a rispondere a tutti coloro che cercano di impedire ai sudanesi di continuare la loro ricerca di un governo civile e democratico».

Ma in realtà l’Onu, gli Usa, l’Ue e i Paesi arabi non volevano che il premier Hamdok  si dimettesse e il rappresentante speciale del segretario generale dell’Onu per il Sudan si è rammaricato per la decisione dall’ormai ex primo ministro  sudanese e ha lodato «I risultati ottenuti sotto la guida del Dr. Hamdok, nonché i risultati significativi ottenuti durante la prima fase del periodo di transizione».

Perthes  si è detto «Preoccupato per la crisi politica in corso dopo il colpo di stato militare del 25 ottobre, che rischia di far deragliare ulteriormente i progressi compiuti dalla rivoluzione di dicembre» e «Profondamente preoccupato per il numero di civili uccisi e feriti nel contesto delle proteste in corso». Per questo ha esortato le forze di sicurezza a «Rispettare i loro obblighi ai sensi del diritto internazionale e a difendere rigorosamente i diritti dei manifestanti alla libertà di espressione e di riunione pacifica. Gli autori di violenza devono essere assicurati alla giustizia».

Il rappresentante dell’Onu, evidentemente rivolto ai militari golpisti, ha concluso: «Le aspirazioni del popolo sudanese a un percorso democratico e al completamento del processo di pace dovrebbero essere la pietra angolare di tutti gli sforzi per risolvere l’attuale crisi. La mancanza di fiducia tra gli attori sudanesi deve essere superata attraverso un dialogo significativo e inclusivo. L’United Nations Integrated Transition Assistance Mission in the Sudan (UNITAMS) è pronta a facilitare tale processo».