Lo scioglimento dei ghiacciai distrugge un importante archivio di dati climatici nelle Alpi

Una ricerca italo-svizzera sul ghiacciaio Corbassière

[30 Gennaio 2024]

Lo studio “High-altitude glacier archives lost due to climate change-related melting”, pubblicato su Nature Geoscience e realizzato nell’ambito dell’iniziativa Ice Memory, i ricercatori del Paul Scherrer Instituts (PSI), dell’Universität Fribourg, dell’università Ca’ Foscari di Venezia nonché dell’Istituto di Scienze Polari del Consiglio Nazionale delle (CNR), ha analizzato i  carotaggi di ghiaccio nel 2018 e nel 2020 del ghiacciaio Corbassière sul Grand Combin nel Vallese e il confronto tra i due dataset dimostra che «Il riscaldamento globale ha reso almeno questo ghiacciaio in gran parte inutilizzabile come archivio climatico».

I ricercatori guidati da Margit Schwikowski, direttrice del Laboratorio di Chimica Ambientale del PSI, e Carla Huber, dottoranda e prima autrice dello studio, dicono che «Dal ghiacciaio della Corbassière sul Grand Combin non è più possibile ottenere informazioni attendibili sul clima e sull’inquinamento atmosferico del passato, perché lo scioglimento dei ghiacciai alpini procede più velocemente di quanto si pensasse in precedenza».

Una conclusione alla quale gli scienziati svizzeri e italiani sono arrivati confrontando le impronte delle particelle di polvere fine intrappolate negli strati annuali di ghiaccio.

Al Psi spiegano che «I ghiacciai hanno un valore inestimabile per la ricerca sul clima. Nei loro ghiacci sono conservate le condizioni climatiche e le composizioni atmosferiche delle epoche passate. Simili agli anelli degli alberi o ai sedimenti marini, possono quindi fungere da cosiddetto archivio climatico per la ricerca. Normalmente, la quantità di sostanze in traccia legate alle particelle nel ghiaccio varia con le stagioni. Sostanze come ammonio, nitrato e solfato provengono dall’aria e si depositano sul ghiacciaio attraverso le nevicate: le concentrazioni sono alte in estate e basse in inverno perché dalla valle può risalire aria meno inquinata a causa del freddo».

La carota di ghiaccio del 2018, estratta durante uno studio preliminare fino a 14 metri di profondità, contiene depositi risalenti al 2011, e mostra queste fluttuazioni come previsto. Ma il carotaggio del 2020, estratto da una profondità fino a 18  metri, mostra e quelle  fluttuazioni solo per i tre o quattro strati annuali superiori. Più in profondità nel ghiaccio, cioè più lontano nel passato, la curva della concentrazione della sostanza in tracce si appiattisce notevolmente e la quantità totale è inferiore.

La spiegazione degli scienziati per la discrepanza trovata è che «Tra il 2018 e il 2020, lo scioglimento dei ghiacciai deve essere stato così forte che una quantità particolarmente grande di acqua dalla superficie è penetrata nel ghiacciaio e ha portato con sé in profondità le sostanze in traccia che conteneva nel ghiacciaio.  Apparentemente l’acqua lì non si è nuovamente congelata concentrando le sostanze in tracce, ma piuttosto è drenata via e le ha letteralmente spazzate via».

Questo ovviamente distorce le firme delle inclusioni stratificate e distrugge l’archivio climatico: «Come se qualcuno fosse entrato in una biblioteca e non solo avesse messo in disordine tutti gli scaffali e i libri, ma avesse anche rubato gran parte dei libri e confuso le singole parole in quelle rimanenti, rendendo impossibile la ricostruzione dei testi originali», spiegano ancora al PSI.

I ricercatori hanno esaminato i dati meteorologici dal 2018 al 2020 e, visto che in cima al Grand Combin non esiste una stazione meteorologica, hanno riassunto i dati delle stazioni circostanti e li hanno estrapolati per l’area di studio, scoprendo che la tendenza climatica generale è stata molto calda, ma gli anni non sono stati estremi. La Schwikowski sottolinea: «Da questo  concludiamo che non c’è stato un singolo fattore scatenante per questo forte scioglimento, ma che è il risultato dei molti anni caldi del recente passato. Apparentemente è stata superata una soglia, che ora ha portato a un effetto relativamente forte».

Il punto è che l’esempio del Grand Combin dimostra che lo scioglimento dei ghiacciai procede in modo più dinamico di quanto gli esperti avessero ipotizzato: «E’ chiaro da tempo che le lingue dei ghiacciai si stanno ritirando. Ma non avremmo pensato che sarebbero state colpite così gravemente anche le zone di alimentazione dei ghiacciai alpini d’alta quota, cioè la parte più alta dove si forma il rifornimento di ghiaccio». Finora i ricercatori hanno esaminato la distribuzione degli isotopi dell’ossigeno nel ghiaccio che, ad esempio,  forniscono informazioni, sull’andamento della temperatura, e di oligoelementi ionici come ammonio, nitrato e solfato. Successivamente, vogliono analizzare in che misura vengono influenzate anche le tracce di sostanze organiche nel ghiaccio.

Anche la Schwikowski è interessata a questo, dato che coinvolta nell’iniziativa della Ice Memory Foundation insieme ad altri esperti di carote di ghiaccio provenienti da tutto il mondo. Si tratta di un progetto di ricerca che punta a  raccogliere in vent’anni carote di ghiaccio provenienti da 20 ghiacciai a rischio di estinzione in tutto il mondo per raccoglierli in un archivio climatico globale. I campioni, tagliati in barre di circa un metro di lunghezza e 8 centimetri di diametro, prelevati singolarmente, saranno conservati in modo permanente e sicuro in una grotta di ghiaccio nella stazione di ricerca italo-francese Concordia nell’Antartide. Le temperature attendibili vicino al Polo Sud, con una media di meno 50 gradi Celsius, garantiscono che le carote rimarranno utilizzabili per studi futuri, anche se il riscaldamento globale prima o poi causerà lo scioglimento di tutti i ghiacciai alpini. Visto che i metodi di analisi sono in costante miglioramento e le generazioni future potrebbero estrarre dal ghiaccio informazioni completamente diverse.

La carota di ghiaccio del Grand Combin avrebbe dovuto essere uno di questi 20 campioni di ghiacciaio, ma la Schwikowski ricorda sconsolata che «Gà in montagna avevamo notato che non ne sarebbe venuto fuori nulla. Come ho detto, le trivellazioni di prova nel 2018 sembravano ancora buone. Ma nel 2020 ci siamo imbattuti più volte in spessi e solidi strati di ghiaccio che nel frattempo si erano formati mentre l’acqua si scioglieva e si ricongelava. Ad una profondità di 17 – 18 metri ci siamo imbattuti in uno strato particolarmente spesso, che si trovava sotto uno strato molto acquoso e morbido. Questa transizione ci ha causato enormi problemi. Soprattutto quando si trivellava più in profondità e poi si estraeva, la trivella è rimasta intrappolata nel duro strato di ghiaccio e abbiamo quasi perso il costoso dispositivo».

Ulteriori esperimenti in altre parti del ghiacciaio hanno riscontrato lo stesso strato con le stesse difficoltà e i ricercatori hanno dovuto abbandonare la sricerca che puntava a perforare il substrato roccioso a 80 metri di profondità per documentare l’intero archivio del ghiacciaio, che abbraccia migliaia di anni. Ma non è stato possibile e la Schwikowski conferma  che le analisi lo confermato: «Al Grand Combin siamo arrivati già troppo tardi».

Gli scienziati temono che questo avvenga anche per altri ghiacciai di tutto il mondo che devono ancora essere campionati nell’ambito di Ice Memory. Nelle Alpi, oltre al ghiacciaio del Col du Dôme sul Monte Bianco a 4.250 metri, dove i il  progetto ha trivellato per la prima volta nel 2016, c’è solo il Colle Gnifetti al confine tra Italia e Svizzera, che è ancora più alto con i suoi 4.450 metri quindi più freddo rispetto al ghiacciaio del Grand Combin. Lì il team del PSI, insieme ai partner della Ice Memory Foundation, nel 2017 è riuscito a ottenere una carota di ghiaccio con la firma ancora intatta. Sono già stati messi al sicuro i campioni di Illimani nelle Ande boliviane, di Belucha nell’Altai russo e di Elbrus nel Caucaso. L’anno scorso ci sono state anche spedizioni sullo Spitsbergen e sul Col del Lys in Italia, ma le loro analisi sono ancora in sospeso. Nel 2023, una spedizione sul ghiacciaio del Kilimanjaro, l’unica massa di ghiaccio significativa rimasta in Africa, è fallita a causa di problemi politici e normativi.

I ricercatori concludono: «Il progetto è una corsa contro il tempo. Non vi è alcuna garanzia che avrà successo. Insuccessi come quelli del Grand Combin diventano ogni anno più probabili».