La legge Ue sul ripristino della natura significa (anche) basta al consumo di suolo in Italia
L’approvazione del nuovo Regolamento europeo sul ripristino della natura - Nature restoration law - poco prima della fine della legislatura è stata giustamente salutata come un successo di grande importanza per la sostenibilità.
Il recupero del 20% degli ecosistemi danneggiati entro il 2030, e di tutti entro il 2050, insieme agli obiettivi sulla biodiversità, come l’inversione del declino delle popolazioni degli impollinatori, hanno catalizzato l’attenzione dei media e degli osservatori, incentivati anche dalle proteste di una parte degli agricoltori e dalle resistenze di numerosi Paesi membri compresa l’Italia che al Consiglio europeo del 19 giugno ha votato contro.
Ma c’è un aspetto del nuovo Regolamento colmo di effetti positivi su cui nessuno, almeno in Italia, si è finora soffermato: lo stop immediato al consumo di suolo in alcune parti molto significative del territorio nazionale che entro tre anni si potrebbe estendere, con il Piano nazionale di ripristino, al 36% dei Comuni italiani. In pratica, i più urbanizzati che contengono la stragrande maggioranza della popolazione nazionale.
Tutto ruota intorno all’articolo otto che, almeno per una parte, si attua direttamente. Nell’articolo si legge che entro il 31 dicembre 2030 non si deve registrare “alcuna perdita netta della superficie totale degli spazi verdi urbani”. Inoltre viene previsto che dal primo gennaio 2031 deve manifestarsi “una tendenza all’aumento” degli spazi verdi, rispetto ai valori del 2024. La stessa cosa vale anche per la copertura della volta arborea urbana.
Letto così non sembra questa grande novità, che invece diventa grossa se messa insieme ad altri due articoli del Regolamento che, oltre al quando, ci indicano il che cosa e il dove.
È il caso dell’articolo tre che definisce gli spazi verdi urbani come la “superficie totale di alberi, di boscaglie, di arbusti, di vegetazione erbacea permanente, di licheni e di muschi, di stagni e di corsi d’acqua […] calcolata sulla base dei dati forniti dal servizio di monitoraggio del territorio Copernicus”. Mancano le coltivazioni temporanee, come i terreni a seminativo, per le quali devono essere comunque attuate le misure di ripristino previste per gli ecosistemi agricoli, che a loro volta escludono il degrado e il consumo di suolo. Ma per il resto si tratta di tutta la copertura non artificiale del suolo.
L’articolo 14, al comma quattro, prevede invece la necessità per gli Stati membri di determinare le zone urbane nelle quali si applica l’articolo otto. Lo strumento è il Piano nazionale di ripristino che deve essere inviato alla Commissione europea entro due anni dall’approvazione del Regolamento (entro il 2026). Si avranno poi sei mesi per le osservazioni e altri sei mesi per il loro recepimento (2027).
L’obbligo di evitare perdite nette degli spazi verdi urbani può riguardare tutti i Comuni classificati come “Città” e come “Piccola città e sobborghi” – su un totale di 7960 comuni italiani, il 36% appunto – oppure solo loro parti, ma in questo caso devono essere comprese almeno le unità territoriali definite “centri urbani” e “agglomerati urbani”.
È la ragione per la quale in queste porzioni di territorio, importantissime, lo stop al consumo di suolo netto è immediato, perché in nessun caso il Piano nazionale di ripristino le può escludere.
Per comprendere il significato delle classificazioni territoriali utilizzate nel Regolamento occorre risalire alla metodologia statistica europea Degurba – Degree of urbanisation, che suddivide la superficie dell’Unione – in base anche ad accordi presi in sede Onu – in celle di 1 chilometro x 1 chilometro facenti parte di una griglia regolare. Sulla base della densità di popolazione le unità territoriali sono denominate “centri urbani”, le più popolate, “agglomerati urbani”, a densità intermedia di popolazione, e “celle rurali”, le meno popolate.
La figura a sinistra, tratta dal Rapporto sul territorio dell’Istat del 2020 (pp. 192-193), mostra la rappresentazione dell’Italia in base alla griglia regolare, con le zone scure nelle quali vale lo stop immediato al consumo di suolo. Si tratta, con buona approssimazione, dei centri urbani con popolazione superiore a 50 mila abitanti e di quelli suburbani con più di cinque mila abitanti.
Ogni comune, a sua volta, viene definito “Città” se almeno metà della popolazione nella griglia associata al comune ricade nella tipologia dei “Centri urbani”; “Zona rurale” se la maggioranza della popolazione ricade nella tipologia “Celle rurali” e “Piccola città e sobborghi” se l’intensità abitativa non è né a maggioranza urbana né a maggioranza rurale. La figura a destra mostra inoltre i comuni italiani per grado di urbanizzazione, con le zone scure nelle quali lo stop al consumo di suolo potrà essere stabilito tra tre anni con il Piano nazionale di ripristino. Anche in questo caso ogni consumo di suolo avvenuto dopo tale data dovrà essere compensato con analoghe superfici rinaturalizzate.
Niente male davvero, per un Paese come il nostro nel quale lo Stato non è riuscito a legiferare in materia di consumo di suolo (lo hanno fatto solo alcune regioni), e dove il fenomeno è di nuovo in aumento negli ultimi anni.
Ora la cosa più urgente è che gli istituti deputati – Istat e Ispra – consegnino ai comuni che hanno unità territoriali classificate da Degurba come “centri urbani” e “agglomerati urbani” la cartografia relativa, in modo che questi possano provvedere ad adeguare i loro strumenti urbanistici, bloccando le edificazioni previste o individuando le necessarie compensazioni territoriali eventualmente in collaborazione con altri comuni della stessa provincia.
Poi va preparato il Piano nazionale di ripristino, anche attraverso l’adesione volontaria dei Comuni che sono disponibili all’ipotesi massima, e l’estensione del blocco anche ai terreni agricoli coltivati a seminativo. Una scelta di sostenibilità che potrà vedere in prima fila proprio il mondo dell’agricoltura, da sempre molto sensibile su questo tema.