Per contrastare l'overtourism serve un nuovo protagonismo delle comunità locali
Una delle parole dell’estate 2024 sarà overtourism, letteralmente il “troppo turismo” che sta mettendo in crisi molte località che pure di turismo vivono. La stagione è partita con la rivolta dei barcellonesi che con tanto di pistole ad acqua e cartelli hanno invitato i turisti ad andarsene! Ma come succede che una delle attività più fiorenti della modernità, il turismo, diventi il casus belli di un conflitto sociale che attraversa città e territori?
Ci sono innanzitutto i numeri: nel 2030 il flusso internazionale di turisti nel mondo supererà, secondo l’Organizzazione mondiale del turismo, i 2 miliardi, oggi siamo a 1,4. Non stiamo parlando semplicemente di “turismo di massa” ma di un fenomeno in crescita che la globalizzazione con il suo portato di nuove tecnologie e connessioni ha via via spinto verso i limiti dell’insostenibilità. Tra aerei low cost e promozione via social, sono sempre di più gli strumenti che le persone hanno a disposizione per conoscere vecchie e nuove località. In Italia sono Venezia, Firenze e le Cinque Terre i territori presi maggiormente e classicamente d’assalto, mentre nel mondo accade sempre più spesso che luoghi inesplorati finiscano nel vortice dell’overtourism “grazie” ad un film o ad un influencer via social. È il caso di Maya Bay, in Thailandia, diventata famosa per il film “The beach” con Leonardo Di Caprio e che il Governo ha dovuto letteralmente chiudere affinché l’habitat naturale superasse lo stress causato da una pressione antropica diventata ormai insostenibile. Bel paradosso per un film basato sull'esistenza di un’isola segreta che tale deve rimanere per non perdere la sua bellezza. Ma non solo di bellezza si tratta.
A Barcellona il prezzo delle case in vendita è aumentato del 40%, quello degli affitti del 70%. È così che si saldano due fenomeni diversi ma connessi: l’overtourism e gli affitti brevi. Un turismo sempre più consistente nei numeri si salda ad un turismo che lascia sempre meno sul territorio, anzi sottrae spazi e cittadinanza ai residenti. Un turismo fatto di mordi e fuggi, di sciami di crocieristi ma anche di coloro che sempre più spesso affittano appartamenti per due o tre giorni abbandonando la sistemazione alberghiera. Ecco allora che la casa ereditata nel centro storico smette di essere luogo dell’abitare familiare e diventa luogo del transitare turistico, spesso senza un minimo contatto visivo: si prenota e si paga online, si entra con un codice che apre una scatola attaccata al muro e custodisce le chiavi della casa. Un oggetto alieno, quello della cassetta delle chiavi attaccata con un trapano al muro esterno delle abitazioni, che invade le strade dei centri storici.
Un segno dei tempi ma anche il segnale di quanto i residenti siano stati ormai espulsi dai centri urbani. Costi di trasporto più bassi, maggiore visibilità dei luoghi anche più nascosti, organizzazione residenziale autonoma che può consentire per esempio di evitare il costo di una cena al ristorante: sono queste le cause più immediate di un fenomeno che sta mettendo in crisi, lo abbiamo detto, proprio quelle località che da molti anni vivono di turismo. Non c’è poi solo il tema della forzata convivenza tra turisti invadenti e residenti asserragliati.
È la qualità della vita a peggiorare per tutte e tutti. Basti pensare alla mole di rifiuti prodotti: ci sono località, come Porto Cesareo in Salento che passa dai 6000 abitanti invernali ai quasi 200.000 in estate. Come si fa a garantire gestione dei rifiuti, trattamento delle acque reflue, mobilità sostenibile, accesso ai servizi, difesa della biodiversità, tutela dei luoghi fragili? È vero che queste decine di migliaia di persone portano, anche se non tutte, posti di lavoro ed economia locale, ma è altrettanto vero che, per i residenti, sentirsi invasi e sviluppare forme di conflittualità verso lo straniero è un fenomeno sempre più diffuso. I turisti vengono accolti con servizi scadenti, spesso con poca professionalità, da personale mal pagato o pagato a nero, da prezzi esorbitanti e sguardi torvi.
Come evitare che una delle esperienze più belle che un essere umano possa fare, il viaggio, diventi sinonimo di distruzione e scontro sociale? Come sempre bisognerebbe alzare lo sguardo e l’ambizione, e anziché subire l’invasione turistica sarebbe necessario organizzare l’attività turistica in termini di offerta diversificata nelle esperienze, nei luoghi, nei tempi.
Il parco delle Cinque Terre ad esempio si è attrezzato sin dal 2017 con una card di servizi che letteralmente “spinge” il turista a prenotare una gita, muoversi con i mezzi pubblici, scoprire località diverse, moltiplicare le esperienze. La famosa destagionalizzazione rimane la chiave di volta o almeno una base necessaria. Come è possibile che, con questi numeri, i servizi turistici siano ancora limitati, soprattutto nel nostro Meridione, ai mesi luglio ed agosto? Il segreto sembra essere anche scegliere che tipo di turismo attrarre, e qui molto può fare la promozione di un territorio che ad esempio facilita la vita ai cicloturisti e penalizza coloro che arrivano in auto. Un turismo più responsabile è un turismo più attento, maggiormente disposto a cambiare abitudini e ad esplorare il territorio fatto anche di località meno note e quindi meno stressate.
Fondamentale appare poi una gestione comunitaria del fenomeno. Occorre non solo formare, informare e impiegare un maggior numero di residenti nelle attività turistiche. È necessario fare dell’identità turistica e del progetto di offerta turistica un processo di partecipazione comunitaria. Basti pensare all’esperienza pioneristica del Museo dei 5 Sensi di Sciacca, un progetto di valorizzazione del territorio e del patrimonio culturale, naturale, artistico e gastronomico della città. La creazione di una cooperativa di comunità ha consentito ai cittadini innanzitutto di acquisire la consapevolezza del valore culturale del proprio territorio riuscendo così a trasmetterlo ai visitatori, considerati come “cittadini temporanei”. È così che i visitatori possono apprezzare Sciacca attraverso un’esperienza che si può vivere, oltre che naturalmente con la vista, anche con gli altri sensi: il gusto, assaporando i piatti tipici locali, il tatto, tramite l’esperienza diretta dell’artigianato locale (come quello della ceramica o del corallo), l’olfatto, visitando le grotte sulfuree, e infine l’udito, ascoltando ad esempio le voci del mercato o dei pescatori di ritorno al porto. Il tutto organizzato in maniera professionale, con la cooperativa che si occupa innanzitutto di formazione delle competenze degli operatori turistici locali e poi di processi di coprogettazione e partecipazione da parte della comunità locale.
Insomma per contrastare l’overtourism non servono le pistole ad acqua ma solo un nuovo modo di organizzare l’offerta turistica, in cui il protagonismo della comunità locale impedisca che il turismo diventi da attività economica a fenomeno di depauperamento culturale ed ambientale.