Cosa (non) sappiamo sulla ripartenza del turismo in Italia
La prudenza è certamente una virtù necessaria ogni volta che ci si confronta con le statistiche sul turismo. Questo vale anche per i dati ufficiali che vengono raccolti dall’Istat, a partire dalle informazioni acquisite dalla Polizia di Stato per motivi di pubblica sicurezza e poi trasmesse al Ministero del Turismo.
Da questi dati origina un dettagliato rapporto recentemente pubblicato sull’andamento turistico in Italia nel 2023, realizzato in collaborazione col relativo dicastero.
Per l’andamento turistico in Italia nel 2023 basti solo guardare al dato toscano, che registra 46 milioni di presenze, una cifra che negli anni abbiamo imparato addirittura a raddoppiare per avere la stima della reale domanda turistica sul territorio regionale. Specie a livello locale, il gap tra le rappresentazioni ufficiali e la realtà dei flussi turistici è diventato molto di più di una questione accademica, ma ha assunto una dimensione operativa: come decidere se non si conosce?
Non deve stupire allora che dall’esercizio di Istat e del Ministero vengano non tanto delle notizie, buone o cattive, ma soprattutto delle “non-notizie”.
La prima di queste è che il turismo è ripartito alla grande (ce n’eravamo accorti anche solo passeggiando nei centri storici delle nostre città, o andando in una stazione ferroviaria o in un aeroporto). Si sarebbero ormai superati i livelli del 2019, una soglia psicologica che certifica la resilienza del sistema turistico. A ciò si aggiunge il ritorno degli stranieri come quota prevalente dei viaggiatori.
In realtà si tratta di dati che hanno importanti variazioni su scala locale e regionale (ad esempio in Toscana le presenze non paiono ancora tornate ai livelli del 2019). Sono tornati i turisti stranieri, ma mancano o sono ancora sofferenti tasselli importanti dello sviluppo turistico pre-Covid, come il mercato russo o quello cinese.
Quello che ragionevolmente possiamo dire è che dopo la grande sostituzione del turismo estero con quello nazionale durante la pandemia, ora siamo in piena fase di riassetto, alla ricerca di nuovi equilibri (anche tra le diverse componenti del turismo internazionale), che non necessariamente riprodurranno ciò che conoscevamo sino al 2019.
L’altra “non-notizia” è che il settore extra-alberghiero cresce di più di quello alberghiero, con dinamismi più accentuati in regioni quali Lazio, Sicilia, Campania e Lombardia, ed un ruolo preminente (ossia con un settore extra-alberghiero che supera in termini di presenze quello alberghiero) in tre regioni: Marche, Toscana e Veneto. Ed anche di questo ce n’eravamo accorti, così come della sempre minore rilevanza di questa classica distinzione all’epoca delle piattaforme globali, oltre che per le crescenti “zone grigie” tra le due fattispecie.
Spulciando tra i molti commenti che hanno seguito la pubblicazione dei dati troviamo invece la “non-notizia” di quanto fatichi il dibattito pubblico ad abbandonare schemi di ragionamento inattuali e ad inquadrare il turismo in modo più maturo nelle dinamiche di un’economia avanzatacome quella italiana.
Da un lato, registriamo gli usuali “sì, ma” di chi ripete i mantra di questi ultimi anni (overtourism, turismo di massa, turismo mordi e fuggi) per identificare in modo ormai caricaturale problemi reali, di cui però non si sanno suggerire soluzioni concrete ed efficaci nella direzione della sostenibilità.
Dall’altro lato, la ministra Santanché si sbilancia in un autocompiacimento alquanto ardito. Si legge nelle sue dichiarazioni che sono stati i provvedimenti sul turismo a determinare “un netto cambio di marcia dall’impatto senza precedenti. Niente accade per caso”.
Ora, pur tra alti e bassi, si deve certamente riconoscere a questo Governo, al Ministero e all’Enit un attivismo maggiore, anche qualitativamente, di quello visto in anni passati. Ma sulle virtù salvifiche degli investimenti di immagine il dubbio è più che legittimo.
La ripresa del turismo ha motivazioni ben più profonde in un bisogno di viaggiare (e dovremmo dire, di un diritto al viaggio) che è caratteristica essenziale delle società contemporanee, e che solo pandemie e guerre possono limitare.
Casomai, sarebbe il caso di interrogarsi sui motivi che comunque ci vedono meno performanti (e anche meno sostenibili) dei nostri principali concorrenti, a cominciare dalla Spagna. Ma questa è un’altra storia.