
Effetto MOSE. Venezia è la città costiera più difesa al mondo dall’Aqua Granda delle alte maree: il 2025 anno di consegna definitiva del progetto di dighe mobili, al quale la nuova Autority della laguna dovrà affiancare la “gestione ambientale”

Il 17 febbraio scorso, nell’anno 2025 che segnerà la fine dei collaudi per la consegna definitiva allo Stato agli inizi del 2026 del suo più visionario progetto, l’Italia ha perso un genio dell’ingegneria come Alberto Scotti, il “padre” tecnico del Mo.SE, il “Modulo Sperimentale Elettromeccanico” che sta proteggendo Venezia con sempre più numerosi e lunghi sollevamenti della diga mobile collocata alle bocche di porto di Lido, Malamocco e Chioggia.
Oggi Venezia è la dimostrazione concreta che si può reagire. Non è solo la città più delicata, l’irriproducibile patrimonio dell’umanità, ma è anche la nuova frontiera della protezione delle aree urbane costiere del Pianeta, con la prima infrastruttura di adattamento e difesa dalle più alte maree in crescita costante, e che nella sua storia hanno sempre provocato temibili inondazioni con punte di Aqua Granda fino fino ai 2 metri, e dal costante rialzo delle acque marine che in prospettiva vede l’innalzamento del livello del mare Adriatico tra 60 centimetri e 1 metro a fine secolo con l’attuale trend di riscaldamento globale e scioglimento dei ghiacciai.Grafico a cura dell’ISPRA
Era l’estate del 1998 quando Franco Miracco, collaboratore delle pagine culturali de il Manifesto che il presidente Luigi Zanda volle con sé al “Consorzio Venezia Nuova”, la società concessionaria “di studi, attività sperimentali, progettazioni e opere per la salvaguardia della laguna di Venezia”, mi portò a vedere il primo cassone giallo galleggiante alla bocca di porto di Lido.
A bordo di un motoscafo raggiungemmo la piattaforma ormeggiata davanti al prototipo della prima paratoia di un giallo brillante nel blu delle acque della laguna della Serenissima, la più rischiosa per l’alternarsi delle maree essendo l’unica laguna del Mediterraneo, insieme alle paludi salmastre del Golfo di Gabes nella costa sud-orientale della Tunisia, dove l’Aqua Granda può raggiungere i 2 metri di altezza sollevando maree distruttive per qualsiasi insediamento. Tra barene cespugliate e reticoli di canaletti d’acqua, emergeva dal mare un oggetto sconosciuto e alquanto ingombrante. Tecnicamente era definito come un “Modulo Sperimentale Elettromeccanico” che riempito lentissimamente di acqua si inabissava e poi lentissimamente svuotato dell’acqua risaliva in superficie. E così raccontai sul giornale dell’angosciante fragilità di Venezia e di un progetto ingegneristico e idraulico alquanto avventuroso e avveniristico, e ancora oggi unico al mondo, in grado di salvarla. Eravamo comunque preoccupati per l’impatto delle barriere sul sistema lagunare avendo a disposizione scarsissime informazioni scientifiche, nessun modello e nessuna proiezione su possibili modifiche della morfologia lagunare - erano ancora lontani studi e ricerche, ma eravamo affascinati dall’impresa di quelle prime dighe mobili a difesa di una grande area urbana costiera. Da allora, si sono susseguiti spaventi mondiali per eventi meteo-marini che hanno sollevato maree in laguna alte fino a 187 centimetri, la seconda alta marea di sempre di soli 7 centimetri in meno dell’Aqua Granda che il 4 novembre 1966 sommerse Venezia.
Ogni volta la Marea Granda trovava la città del tutto indifesa davanti alle acque del suo Adriatico sospinte su calli e piazze da correnti marine e burrasche di vento anche oltre i 100 km orari, che la sommergeva lasciando devastazioni e il mondo sotto shock e tutti a ripetere: “Non c’è tempo da perdere, salviamo Venezia”. Ma quando le acque si ritirarono, i negozi riaprirono, i tavolini dei bar tornarono al loro posto con accanto le orchestrine nello scenario da favola di San Marco, i progetti di difesa “urgentissimi” per l’irripetibile città Patrimonio dell’Umanità finirono in un tunnel senza fine.
Il Parlamento se la prese molto comoda e solo dopo 7 anni, il 16 aprile del 1973, riuscì a varare la “Legge Speciale per Venezia” numero 171, accompagnata dalla solenne dichiarazione di “Preminente interesse nazionale”. Passarono però altri 11 anni e solo nel 1984 lo Stato decise di investire per Venezia i primi fondi con la legge 798, creando il “Consorzio Venezia Nuova”, che sarebbe diventato il soggetto attuatore di uno straordinario progetto di ingegneria civile, ambientale e idraulica. Ebbero l’idea suggestiva di chiamarlo “Mo.SE”, evocando il Mosè biblico che divise le acque del Mar Rosso per portare in salvo gli israeliti inseguiti dagli egiziani.
Ma l’acronimo richiamava il “Modulo Sperimentale Elettromeccanico” che, con comodo, iniziarono a progettare dalla fine degli anni Ottanta. I lavori urgentissimi, insomma, iniziarono “appena” 37 anni dopo la grande piena del 1966, passati 13.505 giorni e ben 37 governi della Repubblica! Un tempo biblico se pensiamo ai Veneziani della Serenissima che in soli 4 anni di scavi riuscirono a scavare un canalone lungo 8 chilometri per la titanica deviazione del Po con il “Taglio di Porto Viro” che salvò da allora la città, deviando le acque del grande fiume nella sacca di Goro e quindi verso il mare. La grandiosa opera fu eseguita in tempi record tra il 1600 e il 1604. Oggi per il MOSE ci sono voluti ben 42 anni!
La schiera di paratoie sta oggi proteggendo la città segna la fine di una storia progettuale e tecnologicamente geniale, ma diventata anche alquanto ignobile e tangentara con scandali, tangenti, spese pazze e arresti clamorosi e processi, tanto scetticismo, proteste, perplessità. Il MOSE è sicuramente un sistema unico al mondo, con le sue 4 lunghe barriere mobili costituite complessivamente da 78 paratoie tra loro indipendenti, che separano solo temporaneamente la più complicata laguna dal suo mare, tutelando la città più fragile del Pianeta e tra le zone hot spot di effetti del riscaldamento globale.
Il progetto è stato scelto al termine di un lungo e travagliato iter valutativo, eliminando altre soluzioni con modelli di difesa definitivi e più invasivi e del tutto inadatti per la città lagunare. Nel mondo abbiamo colossali opere di difesa dalle alte maree a partire dalle possenti infrastrutture in cemento del “Piano Delta” realizzate nei Paesi Bassi con 13 dighe, le loro chiuse e le imponenti barriere tirate su dopo le grandi alluvioni del 1953, per il 40% sotto il livello del mare, e alle quali hanno poi aggiunto la diga mobile del Maeslantkering, conosciuto come il “MOSE olandese” composta da 2 paratoie in acciaio lunghe 210 metri ciascuna e alte 22 metri, del peso complessivo di oltre 13mila tonnellate, realizzato in appena 6 anni e inaugurato nel 1997 che protegge anche Rotterdam e il suo porto. C’è poi il maestoso sbarramento alla foce del Tamigi della “Thames Barrier” che oppone barriere alte come palazzi di sei piani alle alte maree. C’è la lunga barriera di 25 km con 11 dighe e 6 chiuse e 2 canali che protegge San Pietroburgo dalle maree, c’è il progetto non realizzato della grandiosa diga marina con cancelli mobili che va dal New Jersey al Queens, considerato il “MOSE di New York” e proposto dall’US Army Corps of Engineers già all’indomani delle devastazioni provocate dall’uragano Sandy nel 2012, e dopo il passaggio distruttivo dell’Uragano Katrina del 2005 in una New Orleans sotto il livello del mare per oltre metà della sua estensione è stato proposto un complesso sistema di dighe con enormi barriere complete di paratoie, pompe e argini della Flood Protection Authority.
COME FUNZIONA IL SISTEMA DELLE 4 BARRIERE MOBILI DEL MOSE
Escludendo dighe, sbarramenti o sistemi di barriere fisse in laguna, che avrebbero radicalmente modificato l’ecosistema bloccando i vitali scambi di acque nei canali alle bocche di porto comprese le attività economiche, la scelta è caduta sull’innovativo Mo.SE, il “Modulo Sperimentale Elettromeccanico”, il sistema modulare formato da 4 barriere mobili, “a scomparsa” sotto il mare e inserite alle 3 bocche di porto.
La localizzazione delle 4 barriere mobili del MOSE
Due barriere proteggono la bocca di porto del Lido, la più vicina all’area urbana di Venezia e la più larga di quasi il doppio delle altre due. Una è collocata nel Canale Nord di Treporti con 21 paratoie, e l’altra nel Canale Sud di San Nicolò con 20 paratoie. Le due barriere sono collegate tra loro da un'isola artificiale dove sono situati gli impianti di movimentazione del sistema.
Una barriera con 19 paratoie mobili protegge la bocca di Malamocco, l’area lagunare più profonda e dalla quale transitano le navi dirette al porto industriale-commerciale. Per garantire il passaggio anche con le paratoie in esercizio, è stata realizzata una conca di navigazione. E la quarta barriera con 18 paratoie protegge la bocca di porto di Chioggia dove il passaggio dei pescherecci e delle barche da diporto è sempre molto intenso, e dove è stato realizzato un porto-rifugio con doppia conca di navigazione per garantire l'entrata e l'uscita delle imbarcazioni anche nelle fasi di chiusura della barriera.
Alle bocche di porto di Lido e Chioggia, porti rifugio e piccole conche di navigazione consentono poi anche il ricovero e il transito di imbarcazioni da diporto, dei mezzi di soccorso e dei pescherecci anche con le paratoie in funzione. Alla bocca di Malamocco è stata poi costruita una conca di navigazione per il transito delle navi che garantisce l'operatività del porto anche con le paratoie in funzione. La conca, protetta dalla scogliera esterna che crea un bacino di ”acqua calma” e riparato dal moto ondoso, è sulla sponda sud della bocca con una lunghezza utile di 370 m e una larghezza di 48.
Era il 14 maggio 2003 quando iniziarono a lavorare sul progetto della chiusura contemporanea delle 3 bocche di porto con le 78 gigantesche paratoie mobili poste sul fondo che, al salire della marea, devono sollevarsi. Sono trattenute nei fondali da cerniere vincolate a 20 cassoni di alloggiamento e tra loro collegati da tunnel per ispezioni tecniche. Poi ci sono altri 6 cassoni di spalla, con dentro gli impianti e tutto il necessario per il funzionamento del sistema.
Il costo del MOSE è lievitato negli anni e, dagli iniziali 3,4 miliardi di euro è salito poi a quasi 6 miliardi e quindi a circa 8 miliardi considerando le opere connesse, e compreso il miliardo tra fondi extracontabili e schifose tangenti che provocarono la vergogna mondiale del maxi-scandalo del giugno 2014 quando finirono in manette 35 persone. Da quell’anno, stallo dei cantieri, abbandono al loro destino delle parti già realizzate che, senza più manutenzioni, sono rimaste esposte a deterioramento e corrosione dei materiali con fessurazioni dei cassoni sommersi.
Quando i lavori ripresero, la struttura subacquea presentava paratoie aggredite dalla ruggine, bloccate da sedimenti sabbiosi nel caos di competenze nella gestione del sistema con l’andirivieni di commissari, commissari speciali, commissari straordinari. Dopodiché, nella disillusione e nel disinteresse generale, il 4 novembre del 2019 fu annunciata la prima prova di sollevamento di tutte le paratoie alla bocca di porto di Malamocco. Pronti, partenza, via? No, fermi tutti! I test preliminari evidenziarono problemi. La seconda prova fu organizzata per il 10 luglio 2020, un venerdì. Dopo le 11, alle 3 bocche di porto che uniscono l’Adriatico con la laguna, dal fondo del mare le 78 paratoie d’acciaio incernierate nel calcestruzzo si innalzarono tra gorghi e mulinelli e, per la prima volta, la laguna di Venezia venne separata dal suo mare. Quella prima prova di chiusura delle bocche di porto era stata effettuata con una marea da soli 65 centimetri. Però, i cassoni ressero poi contro tempeste e fortunali e contro maree ben più alte.
LA NUOVA AUTORITÀ PER LA LAGUNA DI VENEZIA
Oggi sappiamo che per difendere al meglio Venezia, la migliore tecnica e tecnologia che fa turare un sospiro di sollievo ai veneziani sapendo che gli stivaloni di gomma ormai restano custoditi anche con maree di altezza eccezionale da 120 a 140 centimetri, va necessariamente accompagnata e integrata da altri interventi altrettanto urgenti per garantire la tutela delle acque, degli ecosistemi e della biodiversità lagunare. Sono indicati come necessari anche dall’Autorità di bacino, richiesti e proposti da esperti e "padri" della moderna idrologia come Luigi D'Alpaos per i quali il sistema di dighe mobili funzionerà molto meglio se affiancato da un set di nuove opere. Se ai tempi della progettazione del sistema MOSE i climatologi indicavano nell’arco del secolo un incremento del livello medio del mare di circa 22 centimetri, oggi l’Intergovernmental Panel on Climate Change dell’Onu innalza il livello a 80-100 centimetri con problemi già nei prossimi decenni. La sottostima anche dei costi di gestione e manutenzione delle paratoie è un problema da risolvere: allora furono stimati 10-15 milioni di euro all’anno e oggi siamo tra i 100 e i 120.
Che fare? Garantire quel che serve al MOSE ma affiancare alle dighe mobili interventi - da finanziare visto che il MOSE ha assorbito finora tutti i finanziamenti per la salvaguardia di Venezia - come il progetto “Insulae” che prevede perimetri urbani a quote sufficientemente elevate a protezione di abitati, bonifica dei fondali e delle acque da inquinanti, rafforzamento delle fondamenta della città provando a rialzarle di 25-30 centimetri con iniezioni di liquidi, manutenzione di edifici e canali per la migliore resilienza nell’assorbimento dell’impatto dell’acqua alta.
La salvaguardia sociale, ambientale e della città fisica, è affidata alla nuova “Autorità per la Laguna di Venezia” istituita con la legge 13 ottobre 2020 n. 126 che ha assorbito le competenze dell’ex “Magistrato delle Acque” come “ente pubblico non economico di rilevanza nazionale dotato di autonomia amministrativa, organizzativa, regolamentare, di bilancio e finanziari…sottoposta ai poteri di indirizzo e vigilanza del Ministro delle infrastrutture e dei trasporti”, con funzioni e competenze relative “alla salvaguardia della città di Venezia e della sua laguna e al mantenimento del regime idraulico lagunare, nonché quelle già attribuite al Magistrato alle Acque e trasferite al Provveditorato Interregionale per le Opere Pubbliche per il Veneto, Trentino-Alto Adige e Friuli-Venezia Giulia”. Tra le sue competenze c’è anche la “gestione ambientale” del MOSE che va dalla tutela della morfologia alla manutenzione dei canali. In questo 2025, infatti, il Mose passa tra le sue competenze, e la nuova Autorità dovrà garantire la gestione tecnica e finanziaria del sistema insieme alla salvaguardia dell’habitat lagunare. All’Autorità dà il suo supporto scientifico anche Andrea Rinaldo, “premio Nobel dell’acqua”. E il presidente Roberto Rossetto, il 30 gennaio scorso, nel corso dell’audizione in Parlamento ha già chiarito qual è il suo compito immane spiegando: “L'Autorità incentiva un confronto tra soggetti che interagiscono poco. Oggi, per fare un esempio, ci sono quattro soggetti che studiano le maree per definire qual è il rischio di quota per alzare il MOSE: Consorzio Venezia Nuova, Comune, CNR e ISPRA. Sono cento persone: una semplificazione va fatta e bisogna coordinare queste azioni”.
Dell’ingegnere padre del MOSE Alberto Scotti, sul settimanale veneziano Ytaly.com diretto da Guido Moltedo, Giovanni Leone traccia una lunga biografia da innovatore con il suo team internazionale della “Technital”, la società di ingegneria e logistica e grande idraulica di cui era presidente e direttore. Dopo aver coordinato un team di 150 ingegneri provenienti da tutto il mondo per la realizzazione del MOSE, nella sua ultima intervista ricordava i decenni di innumerevoli sperimentazioni, modellazioni matematiche, fisiche, idrodinamiche, morfologiche, ecologiche nella laguna realizzate con i massimi esperti; la ricostruzione dell’evoluzione dei canali di bocca e della laguna negli ultimi secoli, l’evoluzione morfologica lagunare con trasformazioni anche radicali, gli effetti dei cambiamenti climatici con previsioni dell’innalzamento del livello del mare e delle maree. Ricordando la sua opera maxima senza precedenti, spiegava che un fattore era più importante di tutti gli altri: “il fattore tempo”. Già, il tempo oggi è tutto!
