
[08/11/2006] Energia
LIVORNO. Mentre a Nairobi i circa settemila delegati provenienti da tutto il mondo discutono su come invertire la rotta del surriscaldamento del pianeta, la Iea, l’agenzia mondiale dell’energia, ha presentato ieri a Londra il suo rapporto annuale (World energy outlook). Nel rapporto si illustrano gli attuali e futuri scenari dei consumi e della produzione energetica del mondo e si indicano anche le strade alternative per diminuire la dipendenza da una produzione energetica che viene definita «sporca, poco sicura e costosa» e scegliere invece un’alternativa «intelligente, pulita e competitiva».
Lo scenario disegnato dalla Iea, prevede un aumento del 54% della domanda di energia entro il 2030, di cui solo il 70% da parte dei paesi emergenti della sfera "Cindia", e di cui l’84% proverrà da fonti fossili.
Le emissioni di Co2 raggiungeranno così una quota pari al 55% in più rispetto ad oggi e già nel 2010 la Cina avrà superato gli Usa nel primato dei maggiori produttori di gas serra, con un anticipo di dieci anni rispetto alle previsioni precedenti, mentre per le emissioni di anidride solforosa – effetto della combustione del carbone - il sorpasso è già avvenuto. Già oggi la Cina brucia più carbone di Usa, Giappone e Europa messe insieme e apre in media una centrale termoelettrica ogni settimana.
Sono 0,8 le tonnellate di Co2 prodotte all’anno da ogni cinese, 0,3 quelle prodotte da un indiano, rispetto alle 2,5 di un europeo e le 6 di un americano. L’incredibile boom economico ha portato alla crescita del pil del 10% in Cina e dell’8% in India, sostenuto dal fenomeno di un incredibile spopolamento dalle campagne verso le città industrializzate, tanto che ogni contadino cinese che lascia l’agricoltura per il lavoro in fabbrica contribuisce all’aumento del 700% del suo personale Pil. L’effetto dirompente di questa crescita smisurata delle megalopoli cinesi ha portato il paese ad avere, già oggi, 16 delle 20 città più inquinate del mondo mentre si stima che entro il 2020 le auto circolanti saranno 7 volte quelle attuali.
Questo precipitare delle condizioni ambientali ha offerto una ulteriore motivazione agli Usa per non voler a nessun costo aderire al trattato di Kyoto, disconoscendo nei fatti che nonostante la tumultuosa crescita del pil che colloca la Cina al secondo posto nel mondo come potenza economica, il reddito procapite di ogni cinese è ancora al centesimo posto ed è un ventesimo rispetto al reddito medio di ogni cittadino americano.
Ma dato che il consumo individuale di energia e di materie prime dei cittadini di "Cindia" sono ancora a livelli assolutamente inferiori rispetto a quelli dei paesi occidentali, è assolutamente impensabile di poter applicare a loro le stesse misure. E sarebbe altrettanto immorale chiedere a questi paesi di rimanere al passo rispetto ai livelli di reddito e di benessere economico individuale che caratterizzano la maggior parte di paesi occidentali.
Quello che sarebbe lecito mettere in atto da parte dell’occidente ricco è semmai una serie di politiche che aiutino questi paesi a mettere in atto alternative di sviluppo economico intelligenti, pulite e competitive, per parafrasare il direttore della Iea, Claude Mandil, che nel rapporto indica tra l’altro come l’ambiente potrebbe divenire il business del futuro e come l’effetto serra, da criticità potrebbe invece diventare un’opportunità per le nostre economie.
Del resto la ricetta che individua la Iea come via d’uscita per ovviare agli scenari catastrofici che il perseguire delle attuali politiche energetiche avrebbero come conseguenza, è già in parte in atto sia in Cina che in India.
Secondo l’agenzia mondiale per l’energia infatti l’alternativa sta nel ricorso al risparmio energetico che potrà far scendere la domanda almeno del 10% , ma da questo punto di vista non arrivano segnali dai paesi asiatici, e nella diversificazione delle fonti di approvvigionamento, con il ricorso alle energie alternative e al nucleare, fattore su cui invece stanno intensamente lavorando. Sono infatti ben 40 le centrali nucleari in costruzione in Cina e 30 quelle previste in India, a fianco dello sfruttamento idroelettrico, solare ed eolico, che però secondo le previsioni più ottimistiche non riusciranno a coprire più del 10% del fabbisogno energetico. Sarà quindi difficile, date anche le ingenti risorse interne, convincerli a rinunciare al carbone.
Su questo punto infatti Cina e India aderiscono già al “cartello” cui fanno parte Australia, Usa, Corea del sud e Giappone, che ha respinto l’appello dell´ economista ex-capo della Banca mondiale e adesso consulente del governo britannico, Nicholas Stern, a firmare il protocollo di Kyoto, confermando il loro sostegno ad uno schema alternativo che si affida a nuove tecnologie per ridurre le emissioni e per confinare le emissioni di Co2 nel sottosuolo.
L’Australia che è a capo di questo schieramento, sembra infatti convinta ad andare avanti nella politica di protezione dell’industria del carbone, escludendo anche l´introduzione di una carbon tax o di altre imposte sui combustibili fossili, nonostante la politica del suo premier Howard sembra rimanere ormai isolata anche rispetto ai suoi stessi sostenitori.
In un sondaggio pubblicato la settimana scorsa, che ha coinvolto 1400 elettori australiani infatti, il 71% degli elettori conservatori (rispetto al 79% degli australiani) chiede che l´Australia firmi il protocollo di Kyoto, 4 su 5 sono favorevoli all’introduzione di imposte sulle emissioni prodotte dalle industrie e il 91% fra tutti gli elettori (il 90% fra i conservatori) chiede che si intervenga con urgenza per mettere fine alla dipendenza dall´energia alimentata dal carbone.
Tra le strategie considerate maggiormente efficaci per ridurre la dipendenza da carbone, il 49% ha scelto l´energia solare, il 19% è in sostegno di una carbon tax sul carburante (che aumenta il prezzo a seconda della quantità di Co2 emessa), e il 17% si dice favore dell’energia nucleare, in quanto non produce emissioni di gas serra. Ma se rispetto al nucleare fossero state messe in evidenza le criticità che pone, solo rispetto al problema non ancora risolto che riguarda le scorie, magari la percentuale dei favorevoli sarebbe scesa ulteriormente.
Il problema delle scorie provenienti dalle centrali nucleari, che ancora nemmeno gli Usa, che sono stati i primi a utilizzare questo tipo di energia, hanno ben chiaro come potrà essere risolto, non sembra sfiorare nemmeno l’attento direttore dell’Iea, cui non sfugge invece l’altro grande problema che sta dietro questo tipo di approvvigionamento energetico, ovvero i costi assolutamente non competitivi non solo rispetto alle fonti fossili, ma ormai neppure rispetto al fotovoltaico, tanto che per accrescere la capacità attuale di 368 Gwatt alle 519 (secondo Mandil necessarie entro il 2030 per lo scenario energetico futuro) sarà necessario che i governi riescano a “convincere” i privati ad investire tra i 2 e i 3,5 miliardi di dollari per ogni reattore. Segno che nel nucleare il business non c’è.