[28/04/2008] Monitor di Enrico Falqui

I costi dell’Urbanistica italiana

FIRENZE. Negli anni ‘70 e ’80 è emersa, a livello europeo, una consapevolezza del declino urbano. La pubblicazione nel 1990 del “Green paper on the Urban Environment” può essere considerata rappresentativa dell’inizio di un approccio più attivo allo sviluppo di una politica comunitaria per le aree urbane. I contenuti di quel testo si sono diffusi nei principali Paesi europei divenendo una sorta di “ guideline” per lo sviluppo urbano delle città europee che accettano (non rifiutano, anche se non condividono) la sfida della globalizzazione dell’economia e dello spazio urbano. In Italia, invece, la reazione della maggior parte della cultura urbanistica italiana è stata quella dell’apatica indifferenza, come se i temi suscitati dal Green paper non la riguardassero.

In quel testo si enfatizzava la necessità di contenere la dispersione urbana (e la frammentazione dell’ambiente rurale e del paesaggio) aumentando la densità urbana e promuovendo l’ideale della città compatta. In quel testo, si davano precisi indirizzi allo sviluppo di progetti nei “vuoti” liberati dalla delocalizzazione industriale e commerciale all’interno delle aree urbane e alla preservazione delle cinture verdi, alla progettazione paesaggistica degli spazi aperti e alla conservazione del patrimonio storico, archeologico e culturale delle città, in particolare quelle definite “città d’arte”.

A proposito di queste, il “Green paper”indicava anche la necessità “….di riscoprire il ruolo centrale ricoperto dalle città nella cultura europea sin dall’antichità”, in modo da generare un profilo di città europea con un patrimonio comune e una forma distinta. La principale chiave di lettura del “Green paper” era rappresentato dal fatto che lo sviluppo dell’idea di sostenibilità ambientale, sociale ed economica della città europea veniva introdotto attraverso il concetto di multifunzionalità del territorio e di alta densità urbana, rigettando il concetto di “segregazione spaziale”, ritenuto responsabile di molti dei problemi attuali dell’ambiente urbano, e rilanciando una lotta allo spreco di suolo e alla frammentazione dell’ambiente-paesaggio all’interno delle aree urbane.

Secondo uno dei “padri nobili” dell’urbanistica italiana, Edoardo Salzano,
in Italia, oggi, “…siamo ad un punto di svolta, poiché la pianificazione intesa come”governo pubblico, trasparente e democratico del territorio” è in via d’abbandono e deve essere sostituita da meccanismi che consentano a chi vuole operare trasformazioni urbane di intervenire sulla base dei suoi interessi e delle sue disponibilità immediate”.
Salzano si mostra convinto che la pianificazione è oggi più che mai necessaria e che la vera posta in gioco sia costituita dalla decisione su “…a chi spetti oggi il potere di pianificare” il bene comune del territorio”.
Tuttavia, se anche siamo convinti che la pianificazione deve rimanere in mani pubbliche, possibilmente aperte e trasparenti, ciò che rimane oscuro oggi , è come mai la cultura urbanistica italiana dimostra, nella sua grande maggioranza (non tutti gli urbanisti) l’incapacità a esprimere la complessità del territorio, a fare i conti con le forze che agiscono su di esso, a promuovere, con i suoi progetti , una sostenibilità ambientale e sociale dello sviluppo urbano.

In altre parole, esiste o non esiste un problema “culturale”che riguarda la maggior parte degli architetti urbanisti e/o pianificatori italiani a “mettere in pratica” gli indirizzi europei , già contenuti nel Green paper (1990), di sostenibilità dello sviluppo urbano, accettando e non rifiutando la sfida dei grandi cambiamenti di ruolo delle città contemporanee?

Io credo che questo problema, in Italia, esiste più che altrove in Europa, e precede l’altrettanto vero problema sollevato da Salzano in merito ai poteri di decisione pubblica sul governo del territorio e delle sue trasformazioni.
Gli architetti-urbanisti italiani più moderni e più avvertiti del “ deficit culturale”che oggi impedisce loro di affrontare con un linguaggio e con fini comuni il tema della sostenibilità dello sviluppo urbano, comprendono che la conseguenza di tutto ciò alimenta una “ spirale conservatrice” nell’opinione pubblica italiana.

Alcuni di loro hanno aperto un dibattito, sulle principali riviste di urbanistica italiane o sui numerosi web di pianificazione e di architettura oggi esistenti ed iniziano a sollevare con ragione i temi dell’efficacia dell’Urbanistica italiana e dei suoi costi, arrivando alla conclusione che “…oggi l’urbanistica, in questo Paese, costa troppo in assoluto ma soprattutto per quel che rende: ovvero, il rapporto costo/benefici non è sostenibile”.

Scrive recentemente Ugo Baldini, sull’Osservatorio dell’Archivio Osvaldo Piacentini : “..l’Urbanistica dei nostri giorni sembra poco orientata alla soluzione dei problemi, poco attenta alla condivisione sociale delle scelte da operare e rischia un’autoreferenzialità che la porta verso una deriva pericolosa. Insensibile e disattenta al clima di diffidenza da parte della società civile che si sta generando, ed alla riduzione della “disponibilità a pagare” che ne consegue.”

Si avverte in queste lucide e consapevoli affermazioni, l’imbarazzo di uno degli urbanisti italiani più innovativi rispetto alla sfida che le trasformazioni urbane pongono oggi, in merito ai temi della sostenibilità ambientale e sociale nelle aree urbane dove esse cercano di realizzarsi.

La scarsa sostenibilità di un progetto di trasformazione urbana la si avverte quando il progetto procede e viene realizzato e gli impatti permanenti sono “alienati dal contesto locale”.

Ecco perché a Genova, ad esempio, il progetto per Fiumara non considera le ragioni del contesto in cui si inserisce, né da un punto di vista urbano, né da un punto di vista socio-economico, né da un punto di vista culturale, facendo tabula rasa dei significati storici della grande area industriale che il progetto si propone di recuperare.

Ecco perché il tanto discusso Progetto di riqualificazione di Scampia, a Napoli, concentrandosi solo sulle variabili fisico-architettoniche, difficilmente potrà produrre effetti di sviluppo locale auto-sostenibile di lungo periodo.

Il mancato raggiungimento degli obiettivi previsti di sostenibilità ambientale e sociale non è un “ pasto gratuito” ma presenta dei costi dovuti proprio “ all’inefficacia”, che si aggiungono alle tante diseconomie sull’ambiente e sull’uso delle risorse locali.

Questi costi aggiuntivi di un progetto di trasformazione urbana che si è mostrato indifferente o incapace di tradurre in pratica la sostenibilità ambientale, sociale e culturale dello sviluppo urbano, vengono pagati dai cittadini in due diverse forme.

La prima forma riguarda il costo della “ non equità”di distribuzione dei benefici tra gli attori economici e le popolazioni locali, creando nuove tensioni e conflitti sociali che investono anche il senso di appartenenza del progetto alle identità della comunità locale. La seconda, invece, è invece una vera e propria “tassa indiretta a fondo perduto”sull’uso del suolo e delle risorse locali rese irreversibilmente indisponibili per altri scopi o altri usi.

Ha ragione da vendere Salzano, quando dice che in Italia siamo giunti ad un punto di svolta per quanto riguarda la cultura urbanistica. Tuttavia, non siamo affatto certi in quale direzione questa svolta avverrà. Verso l’orizzonte di rinnovamento di Barcellona e Bilbao, dove l’architettura e l’urbanistica hanno avuto un ruolo catalizzatore per aiutare il processo di rafforzamento delle identità territoriali locali e per incrementare la carrying capacity ambientale delle due città?

Oppure, verso un orizzonte neo-corporativo di “ urbanistica contrattata”
dove ambiente, paesaggio, risorse locali, identità dei luoghi diventano “ merce di scambio”per poteri economici e finanziari con istinti tribali e di casta verso il territorio, inteso come mero spazio economico e come piattaforma indistinta di marketing urbano?

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