Viaggio intorno al mondo durante una pandemia: l’anno dell’alpaca di Giammarco Sicuro

«Elementi scientifici danno assoluta certezza delle necessità di lotte radicali per non rischiare di perdere i livelli di biodiversità e le produzioni stesse che sono necessari per mantenere in vita l’Amazzonia»

Inviato Esteri della Rai e conduttore del programma “Uno Mattina Estate”, Giammarco Sicuro ama l’America Latina che è riuscito a visitare sia in vacanza che come giornalista. Dell’esperienza vissuta in quei paesi ed in altri in cui si è trovato a viaggiare da febbraio 2020 racconta il libro L’anno dell’alpaca. Viaggio intorno al mondo durante una pandemia, che verrà presentato a Firenze, alla Biblioteca delle Oblate, lunedì 20 dicembre prossimo alle 18.

Una collezione di storie e aneddoti che solo un libro poteva raccogliere e che completa in forma espressiva diversa il reportage Amazzonia, una nuova minaccia, andato in onda su Rai 2 a gennaio del 2021, arricchendo all’inchiesta-denuncia su quello che si sta consumando ai danni del cosiddetto polmone del mondo, il racconto personale e umano.

Quale può essere secondo te il fil rouge che lega il nostro destino a quello amazzonico?

«Io mi sono ritrovato a raccontare l’Amazzonia sia nel lato nord, zona Manaus, sia nel sud salendo dallo stato di Rondonia quando la pandemia colpiva forte. Mi ha impressionato un dato, quello relativo al 2020 che parla di una deforestazione record proprio nell’anno in cui la pandemia colpiva il paese e le sue popolazioni. Questo è secondo me il motivo giornalistico, e non solo, che fa capire meglio quanto deforestazione  e pandemia in qualche modo stiano viaggiando a braccetto. Molti indigeni, molti esperti e volontari delle onlus che lì lavorano, mi hanno raccontato che in tanti hanno approfittato delle distrazioni legate alle morti e ai contagi da Covid in quella parte del mondo. Perché? Per portare avanti la deforestazione, divenuta ancora più veloce.

Tra caos e distrazioni delle forze dell’ordine e degli operatori sanitari impegnati a salvare vite, c’era anche chi speculava per accelerare i processi di deforestazione. È una verità che il territorio denuncia da tempo.

Credo sia oggi necessario sottolineare come questi due aspetti, la pandemia e la deforestazione, si siano alimentati reciprocamente. Basta leggere le accuse di genocidi promosse davanti alla Corte Suprema brasiliana contro Bolsonaro a dimostrazione del tentativo di diffondere la pandemia e il contagio tra le popolazioni indigene, soggetti più fragili a malattie respiratorie. Questo mi è stato confermato da indigeni stessi, in particolare dai Mura con cui ho avuto modo di confrontarmi. Ho infatti trascorso molto tempo nel loro territorio nativo e, in più occasioni, mi hanno detto che le forze ordine o altri operatori si recavano li privi di mascherina e spesso causando maggiori contagi. Questo è terribile, soprattutto se si pensa che molte di queste comunità sono in genere tanto chiuse e difficilmente sarebbe stato possibile un contagio. Oggi i Mura e altre popolazioni indigene cercano di proteggersi da sole, senza aiuto di una garanzia governativa».

A diretto contato con alcune comunità indigene hai avuto sicuramente occasione di confronto con vari aspetti di resistenza e lotta. C’è una storia che ti sei portato dietro come racconto emblematico e che vuoi condividere con noi?

«Sì, in realtà due. Si tratta di due persone ben presenti nel libro. Una persona è Gabriel, un signore brasiliano che da 30-40 anni rincorre i fuochi. Lui si definisce “cacciatore di fuochi”. È una di quelle persone preziosissime in questi territori: percorre centinaia di km ogni giorno, inseguendo i piccoli incendi e segnalandoli alle autorità. È un lavoro necessario. L’Amazzonia sta morendo e questo accade pezzettino per pezzettino. Gabriel è un personaggio  straordinario che lotta quotidianamente. Lui mi ha messo in contatto con i Mura, mi ha portato a conoscerli e a parlarci.

Altra storia è quella di Priscilla, una bambina di pochi anni che noi abbiamo accompagnato in macchina da Manaus fino alla tribù dove risiede. Lei rappresenta il futuro delle popolazioni indigene. Non svelo niente a proposito ma anticipo solo che lei avrà un rapporto molto stretto con l’alpaca di peluche, protagonista con me di questa avventura e da cui il nome appunto il titolo del libro. Priscilla mi accoglie dentro una tribù dove è stata creata una sorta di barriera artigianale  sanitaria presieduta da due guardie con lance in mano che assicurano i controlli sui visitatori, monitorando green pass e verificando uso della mascherina e presenza di un tampone negativo. Una sorta di barriera autoprodotta e artigianale come risposta a un governo che non protegge queste popolazioni».

Rispetto alla COP26, che cosa dicono le comunità indigene che hai incontrato e con le quali, immagino, sei rimasto in contatto? Come hanno giudicato le misure annunciate dai governi?

«Non sono sufficienti e lo sappiamo. Niente di quel che servirebbe per salvare questo pianeta è stato detto. Ho avuto modo di riconfrontarmi con persone che lavorano e hanno a cuore il tema amazzonico e la delusione oggi è tanta. Si percepisce una disperazione.

Secondo i dati degli esperti si conferma infatti che se non faremo presto qualcosa di radicale, non avremo via d’uscita. Siamo vicini a un punto di non ritorno. Si tratta di elementi scientifici che danno assoluta certezza delle necessità di lotte radicali per non rischiare di perdere i livelli di biodiversità e le produzioni stesse che sono necessari per mantenere in vita la foresta amazzonica.  Di questo passo, finiranno le condizioni necessarie alla sopravvivenza della foresta amazzonica. Servono interventi radicali e purtroppo non sono state prese decisioni in questo senso. Ad oggi, alla prova attuale, l’Amazzonia morirà davanti ai nostri occhi».