Tra “cultura alta” e selfie, cos’è il turismo in una città d’arte come Firenze?

La culla del Rinascimento ha qualcosa da dire ai visitatori di oggi, oppure ci rinuncia per contemplare il proprio passato?

Nel mai sopito dibattito sul turismo a Firenze si inserisce, suo malgrado, l’irriverente cantante americana Katy Perry con la sua serie di selfie, variamente definiti irriguardosi, scandalosi, disdicevoli. Si innesca ora la corsa al divieto del selfie (che ovviamente lo renderà ancor più piacevolmente trasgressivo). Peccato non si possa chiedere l’opinione dei “danneggiati” Michelangelo e Botticelli, i cui capolavori sono stati per tanto tempo umiliati dalle più volgari oggettistiche da bancarella (made in Italy), e almeno ora ricevono l’omaggio dell’ironia di un’artista bella e brava…

E’ evidente che su tali questioni si scontrano visioni contrapposte di cosa debba essere il turismo in una città d’arte come Firenze. Un pellegrinaggio nello spazio e nel tempo, per poter contemplare dal vivo i capolavori del passato? O (anche) un’esperienza contemporanea, in cui – piaccia o meno – il selfie è strumento di racconto del proprio vissuto e anche dei propri incontri, col personaggio famoso piuttosto che con l’opera d’arte?

Altri sono i problemi gravi e urgenti. Innanzi tutto quello del congestionamento di alcuni luoghi (in verità assai pochi), che pone urgenti problemi di sostenibilità, specie se la crescita dei flussi dovesse – e non è improbabile – continuare nei prossimi anni. Un’inchiesta del Corriere Fiorentino, pubblicata negli ultimi giorni, ripropone con efficacia i termini di questo dibattito, tacendo però su due punti, che alla fine ci riportano ai selfie di Katy.

Il primo è che un certo snobismo elitario che si lamenta dei “troppi turisti” cerca in realtà alibi ad un fallimento decennale, fatto di cattive scelte non meno che di blocchi culturali. Esso è consistito nella consapevole riduzione del turismo a Firenze ad una fruizione massificata di percorsi dedicati alla “cultura alta”. Il problema non è (solo) di avere qualche visitatore in meno agli Uffizi e qualcuno di più al Bargello, ma più radicalmente che il prodotto turistico Firenze non è mai divenuto la città, bensì è rimasto solo la sua porzione “artistica”. Si è fatto turismo museale, non turismo urbano. E così i turisti – dopo il loro disordinato pellegrinaggio – vengono abbandonati a se stessi, allo shopping degli outlet e alla peggiore gastronomia “per turisti”, lasciano vuoto il teatro d’opera.

Con grande sorpresa solo i più coraggiosi e intraprendenti scoprono che esiste una Firenze che non è un museo all’aria aperta e che nessuno gli racconta, fatta di vicoli, di vino e lampredotto e insieme di modernità, di moda, di alta tecnologia. Vanno controtendenza (con significativo successo) solo poche eccezioni, tra cui citiamo soprattutto i bellissimi musei dei grandi della moda, Gucci e Ferragamo.

Il secondo elemento mancante, che deriva dal primo, sta nel fatto che in questi decenni si affacciano flussi imponenti di turisti da parte dei nuovi grandi paesi protagonisti dell’economia e della storia del nostro tempo. Che facciamo? Li contingentiamo? Stiamo attenti: in gioco non è solo il numero di biglietti e il rapporto costi-benefici per le casse comunali. In gioco è il ruolo che Firenze pensa ancora di poter giocare nel mondo contemporaneo. La culla del Rinascimento ha qualcosa da dire anche ai visitatori di quei paesi, oppure ci rinuncia per contemplare il proprio passato, insieme a pochi turisti, contingentati e rispettosi? E se sì, come intende dirglielo? Anche su questo sarebbe interessante chiedere a Michelangelo e Botticelli…

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