Natura in bancarotta: verso le nuove regole dell’economia nell’era dell’Antropocene

La messa a punto dei nuovi obiettivi per lo sviluppo sostenibile – Sustainable Development Goals (SDGs), che nell’agenda internazionale sullo sviluppo prenderanno entro il 2015 il testimone dei Millennium Development Goals (MDGs), sta avendo luogo in un momento storico particolarmente significativo. La grave crisi economico-finanziaria che dal 2008 sta attanagliando tanti paesi nel mondo e i cui effetti si stanno riverberando praticamente ovunque dimostra che è molto difficile mantenere, in un’ottica BAU (Business As Usual), l’attuale sistema economico finanziario senza avviare rapidamente fondamentali correzioni di rotta per migliorare il benessere e l’equità delle società umane.

Inoltre oggi, come abbiamo sempre documentato nelle pagine di questa rubrica, le ricerche scientifiche sul cambiamento ambientale globale ci dimostranoche le funzioni dei sistemi biofisici della Terra sono ormai profondamentemodificate dalle attività umane a un livello tale che, oltre ad essere paragonabili alle forze geofisiche che sin qui hanno modificato l’evoluzione del nostro pianeta, stanno ponendo il nostro pianeta addirittura in una nuova epoca della scala geocronologia (il Geological Time Scale),l’Antropocene.

Da decenni la comunità scientifica internazionale che si occupa dei cambiamenti globali e dei loro effetti sulle società umane stimola il mondo politico ed economico affinché si agisca con urgenza per avviare il mondo e i nostri modelli di sviluppo sulla strada di una sostenibilità globale, che dovrebbe essere indicata già dagli SDGs.

Negli anni ‘80 del secolo scorso si sono andati strutturando autorevolissimi programmi internazionali di ricerca dedicati proprio all’analisi del citato Global Environmental Change (Gec), il cambiamento ambientale globale, cioè lo studio della variabilità naturale che è la base dei continui cambiamenti che hanno luogo nei sistemi naturali e l’analisi del ruolo che il nostro intervento esercita su di essi.

Queste ricerche individuano le basi scientifiche necessarie a discernere la variabilità indotta dall’intervento umano rispetto a quella esistente a livello naturale. Già nel 2001, con il patrocinio dell’ICSU (International Council for Science, ICSU) i programmi di ricerca internazionali sul cambiamento globale, e cioè l’International Geosphere Biosphere Programme (IGBP), l’International Human Dimensions of Global Environmental Change Programme (IHDP), il World Climate Research Programme (WCRP) e l’International Programme on Biodiversity Science (definito Diversitas), nati più o meno tutti nell’arco degli anni Ottanta, si sono riuniti in uno straordinario partenariato, l’Earth System Science Partnership (Essp), con l’obiettivo di coordinare le ricerche dei migliori scienziati del mondo che si dedicano alle scienze del sistema terra.

La crescente consapevolezza esistente sul cambiamento ambientale globale ha condotto la più grande e autorevole organizzazione scientifica mondiale, la già citata International Council for Science, in collaborazione con l’International Social Science Council – che riunisce gli studiosi di scienze sociali – ad avviare un programma planetario di sostenibilità globale, definito Future Earth: research for global sustainability (che ha sostituito il programma Earth System Science Partnership e che è entrato nel vivo proprio nei primi mesi del 2014).

L’Aurelio Peccei Lecture 2014, organizzata dal Wwf e dal Club di Roma, tenutasi lo scorso 29 aprile 2014, ha visto protagonisti Johan Rockstrom, uno degli scienziati più autorevoli sulle tematiche dell’Earth System Science e Global Sustainability, lead author dei paper sui Planetary Boundaries, direttore dello Stockholm Resilience Centre, professore di Environmental Science all’Università di Stoccolma e Anders Wijkman, copresidente del Club di Roma, senior advisor dello Stockholm Environment Institute e a lungo parlamentare europeo e già Policy Director dell’United Nations Development Programme (UNDP).

Il tema della Lecture è stato “Natura in bancarotta“, che è anche il titolo del nuovo rapporto al Club di Roma, patrocinato dal Wwf, di cui è stata presentata l’edizione italiana (a mia cura, pubblicata da Edizioni Ambiente). Herman E. Daly, professore emerito, Università del Maryland, tra i fondatori e maggiori esperti mondiali di Ecological Economics così si esprime su questo interessantissimo volume: «La crescita ha spinto la scala fisica dell’economia oltre i confini planetari, diventando antieconomica, ossia una crescita che aumenta i costi ambientali e sociali più velocemente di quanto aumenti i benefici, rendendoci quindi più poveri, non più ricchi. Questo libro aiuterà i cittadini, e forse anche i politici e gli economisti, a capire cosa sta succedendo».

Johan Rockström e Anders Wijkman riprendono nel volume il concetto dei “Planetary Boundaries” (i confini planetari al quale abbiamo dedicato molti articoli su questa rubrica), che lo stesso Rockstrom con altri 28 scienziati – tra i quali il premio Nobel per la chimica Paul Crutzen – ha individuato in apposite ricerche pubblicate sin dal 2009 e nell’ambito del quale sono stati individuati i nove sistemi principali che consentono al nostro pianeta di funzionare e sostentarci, e per ognuno di questi sistemi propongono un “confine” da non superare rispetto alla pressione umana, se non vogliamo innescare retroazioni pericolose.

I nove confini planetari sono rappresentati dal cambiamento climatico, dal tasso di perdita di biodiversità, dalla modificazione dei cicli biogeochimici dell’azoto e del fosforo, dalla riduzione della fascia di ozono stratosferico, dall’acidificazione degli oceani, dall’uso globale di acqua dolce, dal cambiamento dell’uso dei suoli, dal carico delle particelle atmosferiche di aerosol, dall’inquinamento chimico. Purtroppo abbiamo già superato diversi questi confini (cambiamento climatico, tasso di perdita di biodiversità e modificazione dei cicli biogeochimici dell’azoto e del fosforo) ed è quindi urgente una radicale trasformazione del sistema economico e produttivo.

L’obiettivo di questa trasformazione è quello di rafforzare la resilienza del pianeta e la sua abilità nel continuare a garantirci uno “spazio sicuro” (“a safe space”) per il benessere e lo sviluppo umano.

La sfida della sostenibilità non può essere risolta pensando semplicemente nei limiti dell’attuale sistema economico. Servono modelli di business alternativi e un’economia circolare che disaccoppi la ricchezza e il benessere dal consumo delle risorse, e che assegni un valore al capitale naturale affinché il deprezzamento delle risorse della Terra e la perdita della biodiversità vengano tenute in conto nei bilanci nazionali.

Serve un’economia circolare che sia basata sul risparmio, riuso, riutilizzo e riciclo e che si indirizzi verso l’eliminazione dell’utilizzo dei combustibili fossili e promuova modelli economici che incrementino le tasse sull’uso delle risorse sottraendole alla pressione sul lavoro.

In numerosi settori i modelli di business devono passare dalla vendita di prodotti all’offerta di servizi. Ci sono molti modi per avviare la transizione globale verso la sostenibilità, ma queste azioni, da sole, non bastano. Nell’Antropocene, il periodo geologico nel quale gli esseri umani sono diventati la forza geofisica più importante sulla Terra (e che si ritiene sia stato avviato dalla Rivoluzione industriale ad oggi quindi da meno di tre secoli fa, un vero e proprio battito di ciglia nella storia del nostro pianeta che data ben 4.6 miliardi di anni), dobbiamo adottare strategie di “custodia del pianeta” che si costruiscono tanto lasciando spazio alle iniziative “dal basso” quanto attraverso un’efficace governance “dall’alto”.

Si tratta di una combinazione necessaria che è anche il solo possibile percorso verso il futuro.

Anders Wijkman scrive: «La politica continua a essere dominata da visioni ristrette e miopi. Dalla mia prospettiva, l’attuale sistema politico è male equipaggiato per affrontare molti dei problemi complessi che stanno di fronte alle nostre società. Non è automatico che il sistema economico, che bene ha fatto negli anni successivi alla Seconda guerra mondiale, sia adatto per un mondo complesso e globalizzato come il nostro. La tensione tra lavoro e capitale – la principale divisione politica nel Novecento – è ancora molto rilevante. Ma sono emerse molte altre questioni importanti, e i partiti politici si sono dimostrati spaventosamente incapaci di risolverle. Soprattutto, è carente l’approccio alle questioni della globalizzazione: il mondo è strettamente interconnesso, le dipendenze reciproche tra le nazioni si fanno più profonde. Eppure, in molti paesi il dibattito politico è dominato dalle questioni nazionali.

È sempre più chiaro che la struttura dello stato-nazione è inadeguata per gestire un numero crescente di questioni. […] La deregulation dei mercati finanziari degli anni Ottanta ha ridotto enormemente il controllo dei governi sull’economia. Il settore finanziario è gravemente carente quando si tratta di valutare come viene creato il nuovo credito e quando deve conteggiare i rischi ambientali del proprio operato. I rischi vengono scaricati sulla società: basta guardare a come si sono svolte le cose in occasione della crisi finanziaria del 2008 e, più di recente, di quella dell’euro. Un altro fattore è il mito della crescita infinita e la riluttanza ad ammettere che dobbiamo ridefinire sia gli obiettivi dell’economia sia i modi in cui essa è strutturata. Di solito, i partiti politici hanno un solo modo di pensare allo sviluppo: la crescita materiale. Non vogliono ammettere che a causa del cambiamento climatico, del degrado ambientale e dell’esaurimento delle risorse, non potremo continuare a vivere come abbiamo fatto finora. Ma la crescita infinita non è sostenibile né per il clima né per gli ecosistemi. […] Ecco allora il dilemma che i partiti politici faticano persino ad ammettere, figuriamoci a discutere. Oggi nessuno si aspetta una soluzione, ma il fatto che praticamente non ci sia nessun politico che nemmeno osa sollevare la questione dà la misura di quanto siano stagnanti i partiti».

Johan Rockstrom scrive: «Il divario tra ciò che secondo la scienza è necessario e ciò che la società fa concretamente è una delle spiegazioni del mio impegno a comunicare, al meglio delle mie possibilità e a volte anche con una testardaggine un po’ folle, quello che so dello stato attuale della conoscenza scientifica sui rischi ambientali a cui siamo esposti. Talvolta questo atteggiamento viene definito “apocalittico”. Io la vedo esattamente al contrario, cioè come un fatto estremamente positivo che, grazie ai progressi scientifici, siamo ora consapevoli delle molte minacce che il nostro modo di gestire l’economia pone al nostro benessere. Sappiamo dove sono gli scogli e possiamo evitarli. Fino a poco tempo fa eravamo come Colombo, ciechi in un oceano infinito e certi della crescita infinita. Adesso sappiamo che il pianeta è un arcipelago intricato, dove l’abilità nella navigazione è fondamentale per non fare affondare la nave.[…] Evidenziare i rischi dei compromessi tra scienza e società è uno dei cardini del mio lavoro. Non sono però un ingenuo, e so che il compromesso è la linfa della politica e della leadership. Detto questo, dobbiamo essere cristallini a proposito dei rischi a cui andiamo incontro quando scendiamo a patti con la scienza.

D’accordo, potreste dire, ma la scienza non è mai unanime, e non sapremo mai in cosa “credere” (come se fosse una questione di fede). È vero, la scienza non ha e non avrà mai una risposta definitiva su questioni complesse come la sensitività al raddoppio dei gas serra. È nella natura dell’impresa scientifica che ci siano incertezze, e che gli scienziati cerchino costantemente di affinare le proprie conoscenze. Ma è così che vanno le cose, in qualunque cosa facciamo. Non sappiamo cosa ci aspetta dietro l’angolo, o come i mercati, gli esseri umani e le innovazioni tecnologiche risponderanno a una realtà in costante cambiamento (e che, a loro volta, contribuiscono a modificare).

Ciononostante, la scienza dipinge un quadro sempre più nitido dei rischi che abbiamo di fronte. Grazie a valutazioni scientifiche globali, come quelle fornite dall’IPCC e dal Millennium Ecosystem Assessment, abbiamo raggiunto un livello di conoscenze tale da supportare le nostre azioni come abitanti di questo pianeta. Nessuno dovrebbe contestare ciò, eppure fino a oggi non siamo riusciti a fare ciò che è necessario per ridurre i rischi; al contrario, abbiamo subito le lusinghe del compromesso e della visione a breve termine. Mi trovo ad affrontare questo dilemma ogni volta che parlo con leader politici, uomini d’affari, i media e le persone comuni. […] La seconda sfida con cui (io e molti altri miei colleghi) continuiamo a confrontarci è quella dell’urgente necessità di adottare una prospettiva sistemica e un approccio integrato per risolvere i complessi problemi che affliggono oggi l’umanità. La mia carriera scientifica è cominciata all’Università della Svezia di Scienze agricole, dove, come studente di agronomia, mi resi conto che la divisione in compartimenti stagni tra le discipline scientifiche avrebbe impedito la soluzione dei problemi del mondo reale. Era (ed è tuttora) il caso dei problemi dell’ambiente.

Per troppo tempo, la sostenibilità è stata considerata materia esclusiva per ecologi, biologi, botanici, zoologi, con la conseguenza che le scienze naturali si sono concentrate su un ambito piuttosto ristretto del complesso – e altamente interconnesso – Sistema Terra. In più, le ricerche sui sistemi viventi della biosfera sono state separate da quelle sulle risorse naturali (di cui si occupa la geologia) e da quelle che cercano di spiegare i meccanismi di funzionamento del pianeta (come quelle sulla fisica del sistema climatico o quelle sulla chimica degli oceani, dei suoli e dell’atmosfera). In effetti, ci sono alcuni approcci interdisciplinari, come quello delle ricerche sulla biogeochimica, ma ancora non siamo riusciti a comprendere insieme i processi biologici e fisici del pianeta, che interagiscono tra di loro e alla fine determinano la stabilità del nostro pianeta. Solo per fare un esempio: in che modo gli ecosistemi influenzano il clima? Si tratta di un ostacolo rilevante: abbiamo strutturato la ricerca e le università in un modo che non corrisponde a quello in cui funziona la realtà. Non possiamo sperare di risolvere i problemi ambientali come il cambiamento climatico con un approccio come quello odierno, con discipline scientifiche frammentate e isolate. In realtà, le ricerche dovrebbero mirare a una comprensione sistemica il più ampia possibile.

Ancora peggio, nonostante una conoscenza sempre più approfondita dei modi in cui funziona il nostro pianeta, non stiamo in realtà facendo nessun progresso scientifico in direzione di un futuro più sostenibile. Abbiamo bisogno di una scienza interdisciplinare che si focalizzi sulla risoluzione dei problemi. Giorno dopo giorno, ci sono sempre più studi che cercano di integrare scienze sociali, studi umanistici e scienze naturali, ma rimane un sacco di lavoro da fare. Dirigo due organizzazioni di ricerca ambientale multidisciplinare – lo Stockholm Environment Institute e lo Stockholm Resilience Centre – e in entrambi i casi devo faticare per trovare e assumere scienziati che comprendano appieno le dimensioni sociali del loro lavoro, o economisti, politologi, antropologi, filosofi che capiscano appieno le dinamiche complesse del sistema biochimico del nostro pianeta. Siamo a un passaggio cruciale della storia dell’umanità: è ora di ammettere che la scienza, in base alla quale vengono prese molte delle decisioni che cambieranno il corso dello sviluppo umano, non si basa su soluzioni sistemiche.

Questo perché la scienza e l’università sono bloccate in uno status quo disciplinare vecchio di secoli e ormai obsoleto».