Come mai? Secondo i ricercatori restano «notevoli incertezze» da affrontare

L’inquinamento atmosferico da PM2.5 pesa sul 15% delle morti da Covid-19 in Italia

Pozzer: «La pandemia finirà, ma non esistono vaccini contro una cattiva qualità dell’aria o la crisi climatica. Il rimedio è mitigare le emissioni»

Oltre 6mila morti in meno da Covid-19, ovvero il 15% delle vittime: a tante ammontano le vite che la pandemia avrebbe potuto finora risparmiare in Italia se l’aria che respiriamo non fosse inquinata da PM2.5, il particolato atmosferico fine. È questa la conclusione cui è giunto un team internazionale di ricercatori, guidato da Andrea Pozzer dell’International Center for Theoretical Physics di Trieste e del Max-Planck-Institute for Chemistry di Mainz, che ha individuato a livello globale i legami tra l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico e un rischio di morte molto più elevato da Covid-19.

Lo studio Regional and global contributions of air pollution to risk of death from Covid-19, pubblicato sulla rivista scientifica peer-reviewed Cardiovascular research, ha esteso a livello globale i risultati precedentemente ottenuti all’Università di Harvard sulla relazione tra esposizione al PM2.5 e mortalità da Covid-19, ottenendo per la prima volta dati Paese per Paese.

Da questa nuova ricerca è emerso che circa il 15% dei decessi in tutto il mondo da Covid-19 potrebbe essere attribuito all’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico. Si va dal 29% registrato per la Repubblica Ceca o dal 27% in Cina e dal 26% in Germania, al 3% dell’Australia o all’1% della Nuova Zelanda. Il dato europeo è al 19%, mentre quello italiano identico alla media globale: 15%.

Pozzer spiega che «questa scoperta non dimostra una relazione diretta di causa-effetto tra l’inquinamento atmosferico e la mortalità da Covid-19. Si tratta piuttosto di un effetto indiretto: le nostre stime mostrano l’importanza dell’inquinamento sugli esiti fatali dell’infezione virale per la salute, cioè aggravando le comorbilità».

Il ricercatore sottolinea che «la mortalità effettiva è influenzata da molti fattori aggiuntivi come il sistema sanitario del Paese», ma anche se è già possibile «distinguere chiaramente il contributo dell’inquinamento atmosferico alla mortalità da Covid-19» restano «notevoli incertezze» da affrontare.

Ovvero? «In primo luogo – ci spiega telefonicamente dalla Germania – abbiamo potuto calcolare l’impatto ma tecnicamente non sappiamo i meccanismi biologici attraverso i quali l’inquinamento atmosferico incrementa la mortalità da Covid-19. Abbiamo delle intuizioni in merito ma per rispondere con certezza servono studi dedicati, la nostra è un’elaborazione statistica. Quel che sappiamo è che un organismo sottoposto per lungo termine all’inquinamento atmosferico è meno resiliente di fronte all’arrivo del coronavirus, che più probabilmente porterà a un esito nefasto».

Come riassume un altro co-autore della ricerca, Thomas Münzel dell’Universitätsklinikum Mainz, «quando le persone inalano aria inquinata, le piccolissime particelle inquinanti migrano dai polmoni al sangue e nei vasi sanguigni, causando infiammazione e grave stress ossidativo. Questo causa danni al rivestimento interno delle arterie, l’endotelio, e porta al restringimento e all’irrigidimento delle arterie. Anche il virus Covid-19 entra nel corpo attraverso i polmoni, causando danni simili ai vasi sanguigni. Se l’esposizione a lungo termine all’inquinamento atmosferico e l’infezione con il virus Covid-19 si uniscono, allora abbiamo un effetto negativo aggiuntivo sulla salute, il che porta a una maggiore vulnerabilità e a una minore resilienza al Covid-19». Un po’ come accade per chi fuma tabacco.

Se i meccanismi biologici restano da chiarire, ciò non toglie che tutte le evidenze scientifiche finora raccolte in merito alle correlazioni tra Covid-19 e inquinamento atmosferico vadano nella stessa direzione. Una relazione che peraltro trova conferma dai risultati di studi cinesi simili basati sull’epidemia di Sars, che hanno analizzato l’inquinamento da PM2,5 e le conseguenze dell’epidemia da Sars-Cov-1 nel 2003.

Un’altra «incertezza» che va tenuta in debito conto è poi quella collegata alla natura stessa della ricerca, uno studio di tipo statistico. Ad esempio il dato rilevato per l’Italia (il già citato 15%) è compreso in un intervallo di confidenza al 95% che spazia dal 7 al 34%. Questo significa che in media in Italia – dalle zone rurali poco inquinate a quelle attanagliate nello smog della pianura padana o delle grandi città del nord – si ha il 15% in più di morire per Covid-19 a causa dell’esposizione a lungo termine al PM2,5, ma questa probabilità è racchiusa in un ventaglio più ampio che va dal 7 al 34%.

«Quel che preme sottolineare – aggiunge Pozzer – è che nonostante la variabilità che abbiamo messo in evidenza, questo numero non è mai zero. Un italiano in media se viene contagiato dal Sars-Cov-2 ha il 15% di possibilità in più di morire rispetto a quella che avrebbe se fosse nato in un paese totalmente non inquinato da PM2,5 proveniente da fonti antropogeniche, come quelle legate all’utilizzo dei combustibili fossili».

In Italia ad esempio circa i due terzi delle emissioni antropiche di PM2.5 sono attribuibili agli impianti di riscaldamento e, allagando lo sguardo a tutta Europa, sappiamo che l’80% di tutto il consumo di calore viene ancora soddisfatto bruciando combustibili fossili. Dunque promuovendo l’impiego di fonti energetiche più pulite, come le rinnovabili, anche la nostra salute ne guadagnerebbe? «Questo è indiscutibile – osserva Pozzer – Più in generale, è necessario ridurre la nostra impronta ecologica al minimo. Quella dei nostri antenati durante l’Età della pietra era certamente più bassa dalla nostra, ma allora l’aspettativa di vita se andava bene arrivava a 30 anni. Quindi dobbiamo riconoscere che il progresso tanto male non ha fatto e tornare all’Età della pietra sarebbe peggio. Ma qui non si tratta di chiudere d’un colpo tutte le attività inquinanti: lo sviluppo tecnologico ci ha messo a disposizione molte possibilità per ridurre drasticamente le emissioni e migliorare la qualità della nostra vita, mi sembra giusto spingere in questa direzione».

«Come abbiamo rilevato alla fine della nostra ricerca – continua Pozzer – La pandemia di Covid-19 si concluderà con la vaccinazione della popolazione o, speriamo di no, con l’immunità di gregge attraverso un’infezione estesa. Ma in ogni caso finirà. Tuttavia, non potremo smettere semplicemente di respirare né esistono vaccini contro una cattiva qualità dell’aria o la crisi climatica. Il rimedio è mitigare le emissioni, e questa è una soluzione win-win». Ovvero, ne guadagna in salute l’ambiente e dunque anche noi.

E nonostante i progressi fatti, ne resta di lavoro da fare. A partire dall’Italia: la Commissione europea pochi giorni fa ha avviato una (nuova) procedura d’infrazione verso il nostro Paese, per il mancato rispetto della direttiva 2008/50/CE sulla qualità dell’aria .  I dati disponibili per l’Italia mostrano infatti che «il valore limite per il PM2,5 non è stato rispettato in diverse città della valle del Po (tra cui Venezia, Padova e alcune zone nei pressi di Milano). Inoltre le misure previste dall’Italia non sono sufficienti a mantenere il periodo di superamento il più breve possibile».

Una performance pessima, che comporta non solo enormi danni ambientali ma soprattutto decine di migliaia di vite umane spezzate. Secondo gli ultimi dati messi in fila dall’Agenzia europea dell’ambiente (Eea) nel suo Air quality in Europe 2019, tre inquinanti (PM2.5, NO2 e O3) bastano a provocare in Italia 76.200 decessi prematuri ogni anno. Da solo, il PM2.5 miete 58.600 vittime ogni dodici mesi, il secondo dato più elevato in Europa. Anche questa è una crisi sanitaria, che deve essere trattata come tale.

Il testo di quest’articolo è stato redatto per “il manifesto” – oggi in edicola con il titolo “Polveri e Covid, cocktail letale” -, con cui greenreport ha attiva una collaborazione editoriale