Levare sussidi ai fossili fa bene al portafoglio

Il Ministero della Transizione ammette che togliere e ridistribuire le sovvenzioni dannose è vantaggioso anche per le nostre tasche

Il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr) stanzia, in via eccezionale, risorse europee per 70 miliardi di euro per alimentare la «rivoluzione verde e la transizione ecologica» dell’Italia, eppure ogni anno dalle casse nazionali evaporano 21,6 miliardi di euro in sussidi ambientalmente dannosi: si tratta soprattutto si sovvenzioni alle aziende dei combustibili fossili, che hanno pesato per oltre 13 miliardi di euro solo sull’anno 2020.

È QUANTO EMERGE dal quarto Catalogo dei sussidi ambientalmente dannosi e dei sussidi ambientalmente favorevoli, appena pubblicato dal ministero della Transizione ecologica (Mite), che certifica come lo Stato sovvenzioni misure dannose per l’ambiente più di quanto non faccia per quelle favorevoli (18,9 miliardi di euro nell’anno 2020).

DOPO ANNI DI DICHIARAZIONI al vento, il Mite stavolta annuncia però una possibile svolta. «Il ministero della Transizione ecologica – si legge in apertura del Catalogo – presenterà un piano di uscita dai sussidi ambientalmente dannosi, in linea con il pacchetto Fit for 55, entro la metà del 2022. I lavori di analisi sono già cominciati e il piano permetterà di eliminare i sussidi ambientalmente dannosi sviluppando al contempo, quando necessario, criteri compensativi».

ORA MANCA SOLO IL CORAGGIO POLITICO di procedere, perché dal punto di vista tecnico sappiamo già che il gioco vale la candela. Sono gli stessi esperti del Mite infatti a stimare, all’interno del Catalogo, cosa succederebbe all’economia del Paese cancellando i sussidi ai combustibili fossili: per valutare costi e benefici a livello macroeconomico hanno utilizzato un modello chiamato Ermes, con anno di riferimento il 2015 e un totale di sussidi ai combustibili fossili da riallocare pari a circa 12 miliardi di euro.

PARTENDO DA QUESTI DATI, SONO TRE gli scenari simulati: nel primo (A) la rimozione delle sovvenzioni comporta solo una riduzione della spesa pubblica; nel secondo (B) gli introiti si usano in parti uguali per aumentare gli attuali risparmi di bilancio, sovvenzionare le fonti rinnovabili e migliorare l’efficienza energetica del settore industriale; nello scenario C, infine, i risparmi potrebbero essere impiegati per ridurre il cosiddetto cuneo fiscale del lavoro «qualificato».

IN TUTTI E TRE GLI SCENARI, le emissioni italiane di gas climalteranti si riducono in modo significativo, mentre il Pil assume un andamento più variegato. Nello scenario A cala dello -0,58%, ma nel B e nel C il Pil cresce dello 0,82% e 1,60% rispettivamente, mostrando ottime ricadute sull’economia nel complesso. Soprattutto, gli scenari B e C mostrano un impatto positivo anche sull’occupazione, che potrebbe aumentare del 2,3% e del 4,2%.

NON SOLO: INSIEME al nuovo Catalogo sui sussidi ambientali, il ministero della Transizione ecologica ha pubblicato anche i rapporti Ocse sulla Riforma fiscale ambientale – esito della richiesta dell’Italia nell’ambito del programma della Commissione Ue sulle riforme strutturali –, delineando un piano d’azione che pone particolare attenzione sull’opportunità di introdurre una carbon tax nel nostro Paese, come già avvenuto con successo in molti altri Stati.

PIU’ NEL DETTAGLIO, IL RAPPORTO giudica «fondamentale», per la riduzione delle emissioni climalteranti, introdurre un prezzo minimo per le emissioni di CO2 in Italia, uniforme per tutto il consumo energetico; partendo da un livello basso (40 euro per tonnellata di CO2 emessa) nel primo anno della riforma, per poi incrementare la quota di 10€/ton all’anno. Se l’iter partisse nel 2022, ad esempio, la carbon tax raggiungerebbe i 60 euro/ton nel 2024 e quota 120 nel 2030, quando sarebbe in grado di garantire un gettito pari a circa l’1% del Pil: ovvero oltre 16 miliardi di euro all’anno (riferendosi al Pil 2020), da potersi impiegare per fini coerenti con lo sviluppo sostenibile.

CON QUALI RICADUTE COLLATERALI? Il rapporto stima che con 75 dollari per ogni tonnellata di CO2 emessa – in linea con la proposta già avanzata a livello globale dal Fondo monetario internazionale – il prezzo del carbone aumenterebbe del 138%, quello del gas naturale del 34%, dell’elettricità del 31% e quello della benzina del 5%, rispetto ai livelli del 2020. Tanto o poco? Di certo la crisi delle bollette innescata dal gas, e dunque dalla nostra dipendenza dai combustibili fossili, è assai più cara: come documenta l’Arera, nel corso del 2021 il prezzo spot del gas naturale al Ttf (il mercato di riferimento europeo per il gas naturale) è aumentato del 471% (da 21 a 120 €/MWh), un trend che si è riflesso nel prezzo dell’energia elettrica all’ingrosso (Pun) che, nello stesso periodo, è aumentato di quasi il 400% (da 61 a 288 €/MWh). Una riforma fiscale ecologica dunque non converrebbe «solo» all’ambiente, ma anche al nostro portafogli.

VALE LA PENA TENTARE: l’esperienza già maturata dalla prima potenza industriale del continente – ovvero la Germania – in termini di riforma fiscale ecologica induce all’ottimismo. Dalla sua adozione nel 1999, si stima che la Germania abbia raccolto oltre 20 miliardi di euro in gettito aggiuntivo, che a loro volta hanno contribuito in modo determinante a stabilizzare il sistema pensionistico del Paese (i contributi pensionistici pagati da lavoratori e datori tedeschi sarebbero cresciuti dell’1,2% e l’importo delle pensioni sarebbe calato dell’1,5%, rispetto a quanto invece avvenuto).