Gli “incontri al buio” con l’orso, tra diritto e rovescio

Le modificazioni profonde degli habitat e la fine di tante economie delle zone montane non permettono un ritorno al passato: occorre saper guardare avanti

In Abruzzo un orso entra in una casa attraverso una finestra. Nei boschi del Trentino un orso aggredisce un uomo.

Vale premettere che la presente disamina reca altri obiettivi di analisi e non rappresenta la sede per discettare di eziologia o di etologia. Si deve, però, dipartire dal fatto che gli accaduti recano con sé una scarsa dimensione di episodicità, giacché l’interfaccia con la fauna selvatica tutta ha subito un recente e concreto incremento.

Ciò per via del mutamento del paesaggio rurale (e montano), ma anche in conseguenza di interventi di reintroduzioni di specie dapprima scomparse. Ed è innegabile che va ritarato il rapporto uomo-natura, per cui non è più pensabile “non” avere il cinghiale (ma anche molte altre specie non certo icastiche come l’irsuto suide, ma comunque evocative del fenomeno) dietro casa e anche dentro le città o i lupi in pianura e in collina e lamentarsi di ciò pretendendo di ritornare a trent’anni addietro e oltre. Le modificazioni profonde degli habitat, l’abbandono delle attività agro-silvo-pastorali tradizionali, l’agricoltura globalizzata, la fine di tante economie delle zone montane, non permettono fattivamente un ritorno al passato.

Si tratta, com’è evidente, di un aumento di dimensione della biodiversità che certo non nuoce. Occorre abituarvisi, ma è necessario anche adottare le giuste e note misure di rimedio che impediscano che tale situazione noccia alla sicurezza, ad esempio, della circolazione stradale. Recinzioni, sovra/sottopassi, sistemi di dissuasione, e comunque applicazioni pratiche secondo studi specifici sono in grado di limitare di molto lo stadio di assedio che spesso sembra di percepire. Certo, si tratta di compiere operazioni di economia domestica, giacché sono interventi comunque costosi, per cui magari si possono sottrarre fondi destinati ad altro… come agli inutili e costosissimi lanci di selvaggina operati dagli Atc (per i quali è difficile non ripetere un martellante sdegno).

La sicurezza rispetto a spiacevoli incontri con i grandi carnivori, invece, suscita ben altre attenzioni.

Il fenomeno, invero, è stato ben studiato in una casistica nordamericana, con risultati d’indagine che è opportuno leggere direttamente in AA.VV., Human behaviour can trigger large carnivore atacks in developed countriesin Scientific Reports, March 2016. Ineluttabile il concetto per cui lo sviluppo di alcune attività all’aria aperta o di alcuni comportamenti (bambini lasciati senza sorveglianza, cani al seguito, attività al crepuscolo/alba, avvicinamento a scopo di naturalismo dilettante ed imprudente) favorisce e spesso fa scattare il comportamento aggressivo di animali che, è bene ricordarlo, non sono affatto dei morbidi peluche, né – secondo l’immaginario collettivo – bonaccioni e disposti a giocare come nemmeno spesso fanno gli stessi animali da compagnia.

Dunque occorre stabilire – lasciando agli esperti lo studio e la valutazione caso per caso dell’accaduto e delle cause scatenanti l’attacco (o il comportamento pericoloso) – quale può essere la linea di demarcazione tra l’imprudenza dell’uomo, rispetto alla fatalità, o rispetto ad una condizione che abbisogna di interventi precisi e mirati, anche a danno della conservazione della fauna selvatica stessa.

Per quanto la fauna selvatica possa tendere ad essere schiva, stante l’elevatissima antropizzazione del territorio (trentino in particolare, con elevatissimi picchi di fruizione turistica), sarà difficile non immaginare altri episodi di pericolosa interfaccia, per i quali dovranno essere attuate necessariamente misure di precauzione, che potranno pendere in un senso o nell’altro, ma che sono giuridicamente imprescindibili a tutela della pubblica incolumità. E, quindi, non è pensabile non prevedere la delimitazione di aree (anche solo per periodi) ove l’incontro potrebbe essere più frequente e pericoloso, adottando tutte le misure tipiche invalse negli altri paesi dove insistono specie ancora più aggressive (obbligo di tenere determinati comportamenti, di rispettare degli orari di accesso, di avere con sé spray repellenti, ecc.).

D’altro lato, valutando che è in atto un’espansione della specie in un territorio che non è certo più quello ottocentesco (tempo in cui, peraltro, certe questioni si risolvevano in maniera molto spiccia, senza tavoli tecnici e impervi procedimenti amministrativi e, soprattutto, senza l’animalismo da tastiera), rimozioni o allontanamenti o isolamenti in aree faunistiche per gli esemplari più irriducibili, e comunque un attento e continuo monitoraggio degli esemplari più vivaci per il tramite delle note moderne tecnologie s’impone come un minimo di risposta dovuto nel semplice rispetto dell’ordinamento giuridico.

Ciò senza dimenticare che i principi di diritto consentono di leggere il fenomeno delle responsabilità soprattutto in considerazione del luogo in cui potrebbero verificarsi siffatti spiacevoli incontri e degli eventuali segnali di allarme già manifestati.

Ergo, possono darsi due ipotesi principali a titolo di esempio.

Nel caso di un’aggressione lungo un sentiero poco frequentato che penetra una zona di wilderness di un’area protetta, si potrebbe addossare all’escursionista l’assunzione del rischio legato alla presenza di specie pericolose, con gli ammennicoli di corollario ad esempio circa la eventuale condotta imprudente e scatenante serbata al momento dell’incontro. Ma, certamente, è possibile addossare all’ente gestore dell’area protetta l’obbligo giuridico di impedire l’evento attraverso la corretta informazione e la descrizione delle misure di precauzione da adottare o della condotta da tenere e, infine, anche l’onere di monitorare esemplari che già avevano manifestato segnali di pericolosità.

Nel caso, invece, di episodi che si verificano dove non c’è alcuna ragionevole possibilità “ecologica” di immaginare rischiosi “appuntamenti al buio” i termini sono quasi del tutto rovesciati e sono esclusi soltanto dal caso fortuito, rappresentato, ad esempio dall’orso (o dal sarchiapone) giovane e curioso che d’un tratto scende in paese senza che mai prima si fosse registrato in quei luoghi un simile evento.

Diversamente, per la peculiare tipologia delle attività antropiche che vi si svolgono (già ad esempio per il fatto che vi possono essere bambini non necessariamente sotto stretta sorveglianza), per il fatto che non vi è scelta nel recarsi in tali posti o meno e perché è la fauna selvatica ad aver invaso l’ambiente dell’uomo e non viceversa, ma anche perché la fauna selvatica stessa, non trovandosi nel proprio ambiente naturale, può reagire con comportamenti imprevedibili e pericolosissimi (potrebbe essere il caso di un orso che si sente prigioniero in uno stretto vicolo al cui ingresso si è inconsapevolmente affacciato un passante), le regole di cautela sono completamente soppiantate a svantaggio della specie selvatica, per cui è legittima anche l’immediata e “contingibile” ordinanza sindacale di abbattimento. Extrema ratio che sottintende come, a carico degli enti gestori e responsabili della fauna selvatica – aree protette o regioni, con la specifica che gli oneri di tutela non cessano in caso di sconfinamento (cioè “appartiene” alla tutela e responsabilità dell’ente parco, ad esempio, tutta la fauna che normalmente vi ripara, anche se poi periodicamente o ogni tanto decide di fare un giro fuori dai confini) – vi sia un obbligo giuridico di provvedere e di impedire l’evento adottando senza ritardo alcuno tutte le misure possibili.

Leggi qui gli altri articoli del nostro think tank pubblicati su Ecoquadro: https://www.greenreport.it/nome-rubrica/eco2-ecoquadro/