Geotermia all’isola d’Ischia, la storia di un primato italiano riportato alla luce

Uno studio guidato da Roberto Parri mostra come siano stati realizzati in Italia, negli anni ’30 del secolo scorso, i primi impianti binari al mondo per produrre elettricità da risorse a bassa entalpia

È universalmente riconosciuto che i primi impianti per la produzione di energia elettrica da fluidi geotermici siano stati quelli di Larderello (Toscana), realizzati agli inizi del ‘900 (1904-1913). A Larderello, il fluido utilizzato in questi impianti era vapore in pressione, quindi fluido ad alta entalpia. In quell’epoca, lo sviluppo degli impianti a Larderello era legato al miglioramento della tecnologia di perforazione che permise di realizzare pozzi in grado di contenere la pressione del vapore, dopo che per mezzo secolo i pozzi erano stati realizzati al solo scopo di drenare fluidi che venivano utilizzati a scopo chimico (produzione di Boro).

È invece poco conosciuta la storia tecnologica legata all’utilizzo di fluidi a bassa entalpia, le cosiddette “acque calde”, per la produzione di energia elettrica. Anche su questa vedremo che c’e un primato italiano, come mostra lo studio The history of geothermal electric power plants on the Island of Ischia, Italy.

Fluidi geotermici ad alta entalpia sono presenti in pochi campi al mondo, tra cui Larderello e The Geysers (USA). Fluidi a minor contenuto energetico sono invece molto più diffusi e sono pertanto i campi attualmente a più alto sviluppo. Gli impianti binari sono attualmente gli impianti a maggiore diffusione che utilizzano queste risorse, e talvolta vengono pubblicizzati come una novità tecnologica.

La ricerca condotta nel presente studio è rivolta invece ad evidenziare come dagli anni ‘30 in Italia, primi al mondo, siano nati progetti che hanno portato alla realizzazione di impianti binari per la produzione dell’energia elettrica da acque calde.

Nel presente lavoro, abbiamo voluto dar merito a chi per primo al mondo, in Italia e precisamente nell’isola d’Ischia, ha messo a punto questa tecnologia che purtroppo è rimasta inutilizzata per molti decenni.

Attività di ricerca geotermica nell’isola d’Ischia

Sull’isola d’Ischia si sviluppò, dalla seconda metà degli anni ‘30 al 1943, un’intensa attività di perforazione per reperire fluidi geotermici da utilizzare a scopo energetico. Le zone dove tali attività si concentrarono furono la zona di Cetara, la zona delle Fumarole-S. Angelo e la zona dei Maronti. Già nei primi anni erano stati eseguiti 80 pozzi di profondità variabile da 20 a 90 metri, per complessivi 2.160 metri. L’attività di perforazione è poi ripresa dopo la seconda guerra mondiale fino a circa la metà degli anni ‘50. Complessivamente sono stati perforati sull’isola un centinaio di pozzi.

Di pari passo con l’attività di esplorazione profonda, iniziarono anche i primi progetti per l’utilizzazione del fluido geotermico reperito: in occasione della costruzione dell’acquedotto per l’isola d’Ischia venne l’idea di utilizzare le sorgenti termali per fornire l’energia elettrica per le stazioni di sollevamento. Nell’isola vi erano, infatti, sorgenti termali le quali indicavano la possibilità di reperire vapore in profondità, mediante la perforazione di nuovi e più profondi pozzi.

I primi progetti per utilizzare le acque calde

Nel 1927 l’ing. Enzo Carlevaro formulò un primo progetto per la realizzazione di una centrale geotermoelettrica costituita da due evaporatori in cascata a pressione decrescente, alimentanti un’unica turbina a vapore con due ingressi separati. Di questo progetto alcuni dati sono stati pubblicati nel 1928, ma una relazione più dettagliata si ritrova in una pubblicazione dell’Associazione elettrotecnica italiana del 1939.

Questo tipo di impianto è quello che oggi chiamiamo a doppio flash, dove si cerca di produrre vapore d’acqua abbassando la pressione del fluido geotermico. Anche questo è un progetto precursore di impianti geotermoelettrici che prendono piede principalmente negli anni ’60; il progetto non si è sviluppato a quei tempi perché richiedeva fluidi geotermici in pressione.

Infatti, fra le complicazioni impiantistiche analizzate che portarono alla non realizzazione di questo primo progetto, vi erano: alti volumi specifici in gioco, date le bassissime pressioni, alti salti entalpici in turbina che richiedevano più stadi di espansione, formazione di condensa negli ultimi stadi di turbina con erosione e riduzione del rendimento e gli incondensabili rilasciati dall’acqua termale nelle fasi di flash, che dovevano essere estratti dal condensatore con dispendio di energia.

Per risolvere questi problemi si pensò di utilizzare cicli diversi, studiati, a quel tempo, per ricavare energia elettrica dall’irradiazione solare captata da pannelli solari termici, cioè cicli che utilizzano un fluido secondario che evapora a temperature raggiungibili, in questo caso, da un pannello solare termico, in grado di azionare una piccola turbina. Questi sono i cicli attualmente chiamati binari.

Prima di andare oltre nel racconto, vorrei evidenziare come a metà anni ‘20 si pensava già ad utilizzare il solare termico per piccole produzioni di energia elettrica. Immaginiamoci il contesto: avere energia per l’illuminazione era già una intuizione rivoluzionaria; in quei tempi l’occupazione della Libia richiedeva energia elettrica e lì l’irraggiamento era notevole. La riflessione è: l’utilizzo del petrolio che si svilupperà negli anni seguenti sarà stato responsabile dell’accantonamento di tutti questi progetti che ora dobbiamo riscoprire? Con questo andiamo avanti nel racconto.

L’ing. Tito Romagnoli, già a partire dal 1923, aveva pubblicato studi che descrivevano sperimentazioni su piccole macchine alternative da mezzo cavallo, azionate da vapori di anidride solforosa e successivamente da cloruro di metile. Altre applicazioni simili erano state studiate da G. Andrei con cloruro di etile (1935).

L’ing. Luigi D’amelio già dal 1934 progettò’ un impianto a turbina utilizzante cloruro di etile. Con tale fluido, a maggior peso molecolare rispetto all’acqua, si ottenevano basse velocità di efflusso, potendo quindi realizzare turbine ad un solo stadio. Il primo progetto ideato fu un ciclo per acque termali a tre salti di pressione con vapori che, raggiungendo velocità diverse nella espansione, utilizzavano ugelli a distanza progressivamente crescente, sulla stessa ruota. Questo si fermò alla fase di progetto.

Il primo impianto pilota a ciclo binario

Per sperimentare il comportamento dei materiali da utilizzare in un impianto avente per fluido motore il cloruro di etile, l’ing. D’Amelio realizzò, presso l’Istituto di macchine dell’Università di Napoli, un semplice impianto, della potenza nominale di 10 Kw, costituito da un evaporatore, una turbina ed un condensatore.

Gli scambiatori avevano la struttura di normali condensatori a superficie a più percorsi, ma erano realizzati con diversi materiali per provarne il comportamento. L’evaporatore aveva tubi in ferro, il condensatore in ottone, il preriscaldatore in rame. La turbina ad azione era monoruota con un’unica corona di pale del diametro pari a 220 mm.

Il problema che rimaneva da risolvere era conseguente alle alte superfici di scambio necessarie per avere bassi ΔT negli scambiatori; alte superfici di scambio avevano come conseguenza alti volumi di fluido secondario e quindi una costosa dotazione.

Per sopperire a questo problema l’ing d’Amelio, con il suo prototipo, sperimentò l’utilizzo, come fluido secondario, di una miscela di fluidi non miscibili, acqua e cloruro di etile.

Il fluido da far evaporare, cloruro di etile o butano, una volta preriscaldato ad una temperatura prossima a quella di evaporazione in caldaia (circa 60 °C), veniva iniettato dalla pompa di alimento in seno all’acqua di supporto termico e frazionato in minutissime goccioline. In tal modo la grande estensione della superficie di contatto, fra l’acqua di supporto ed il nuovo fluido, faceva sì che questo venisse evaporato in seno all’acqua con una caduta di temperatura praticamente trascurabile.

L’alto peso molecolare e l’alta tensione di vapore del cloruro di etile rispetto all’acqua faceva sì che la fase vapore fosse quasi esclusivamente composta dal vapore del cloruro di etile.

L’ing. D’Amelio racconta che la sperimentazione ha dimostrato come il supporto termico costituito dall’acqua si sia comportato praticamente come inerte, e la variazione di rendimento del ciclo sia stata inapprezzabile con la miscela rispetto al solo cloruro di etile.

Vorrei qui aggiungere che, attualmente, un grande fronte di studio sull’utilizzo degli impianti binari riguarda la scelta dei fluidi (e delle miscele) da utilizzare per ottimizzare il loro funzionamento, in funzione della temperatura della sorgente geotermica. Il motivo principale che spinse l’ing. D’Amelio ad utilizzare miscele non era tanto termodinamico, ma quanto la mancanza di risorse economiche per poter acquistare il cloruro di etile. Ma anche in tale campo, cioè nello sperimentare una miscela di fluidi, in questo caso non miscibili, fu un precursore.

Nel 1938 la Società meridionale di elettricità (Sme) e la Società romana di elettricità (Sre) fondarono la Safen, Società anonima forze endogene napoletane, allo scopo di studiare possibili utilizzi delle acque e dei vapori vulcanici dell’area flegrea, per la produzione di energia elettrica. La Safen si avvalse della collaborazione dell’ing. D’amelio.

I primi impianti binari sull’isola di Ischia, in località Citara

Inizia la sperimentazione sul posto, ad Ischia, in località Citara con un primo impianto da 11 Kw. Gli ottimi risultati registrati portarono alla progettazione di un impianto di taglia 300 Kw sullo stesso principio, utilizzando 60 litri al secondo di acqua termale; siamo negli anni 1941-1942.

Alla fine del 1943 la centrale era in avanzata costruzione, ma i lavori furono interrotti fino al 1945, anno nel quale fu completata. Sembra che anche la ricerca del fluido motore (cloruro di etile) fu resa difficoltosa a seguito degli eventi bellici; dopo moltissime ricerche e trattative finalmente fu reperito nel 1947 negli Usa.

La centrale entrò in funzione nel 1955, ma una descrizione dell’impianto fatta dall’Istituto di giacimenti minerari e geologia applicata dell’Università di Roma lo descrive leggermente variato rispetto al primo progetto dell’ing. D’Amelio.

Infatti, si decise di utilizzare dal fluido in uscita dai pozzi solo la fase vapore, separando la fase liquida. Tale fase vapore, separata ad una pressione di 1,5 ata e ad una temperatura di 110 gradi, viene condensata in un condensatore a miscela utilizzando acqua in circuito chiuso per ridurre i problemi di incrostazioni.

L’acqua calda prodotta ad una temperatura di 90 °C viene utilizzata per far evaporare, in uno scambiatore a superficie, il cloruro di etile che alimenta la turbina. Il cloruro di etile viene quindi poi condensato in un condensatore raffreddato ad acqua di mare.

Di questo impianto, entrato in esercizio nel 1955, non si conoscono al momento i dati di esercizio e quanto abbia effettivamente prodotto. Lasciamo le considerazioni su questo impianto alla fine.

Impianto a scarico libero in località Sant’Angelo

Passiamo ad un altro impianto. Sempre ad Ischia fu installata una centrale, nella zona di Sant’Angelo, del tipo a scarico libero, tecnologia quindi diversa dall’impianto di Cetara e, più simile agli impianti di Larderello. Nella zona di Sant’Angelo erano state effettuate perforazioni per circa 300 metri. Il primo pozzo, in erogazione dal 1942, aveva una portata di circa 7000 kg/h di vapore alla pressione di 1,2 atm.

Il buon risultato di questo primo pozzo spinse la società Safen a sperimentare, come fatto da tempo a Larderello, delle macchine che utilizzavano direttamente, come fluido motore, il vapore a bassa pressione. Fu pertanto iniziata la costruzione di una centrale elettrica con turbina a vapore, per una potenza massima di 200 kW.

Voglio far notare che questo progetto cercava di replicare la tecnologia utilizzata a quel tempo a Larderello, detta a scarico libero; cioè il vapore in pressione reperito viene mandato ad azionare una turbina che scarica direttamente all’atmosfera. È un impianto a basso rendimento in quanto scarica vapore all’atmosfera, non condensando completamente il vapore, ma che a Larderello aveva un senso per i seguenti motivi.

Lo sviluppo della tecnologia di perforazione a Larderello aveva reso disponibile grossi quantitativi di vapore. La Società boracifera (che gestiva gli impianti di Larderello con a capo il principe Ginori Conti) non aveva capacità finanziarie per costruire centrali a condensazione, in grado di meglio sfruttare il vapore e, pertanto, decise di installare queste turbine di produzione Ansaldo, in attesa di avere i finanziamenti per completare l’impianto con la fase di condensazione, cosa che avvenne con l’ingresso delle Ferrovie dello Stato nella compagine azionaria.

La Safen non aveva invece questa grande disponibilità di vapore in quanto quello reperito era poco ed a bassa pressione; ritengo che loro fossero certi del suo ritrovamento. Forse, aggiungo io, c’era il miraggio di diventare una seconda Larderello, ma si stava perdendo quella consapevolezza di poter sviluppare una tecnologia adeguata alla risorsa disponibile.

Tutte queste attività furono sospese per gli eventi bellici.

Contemporaneamente alla costruzione della centrale, fu eseguita la seconda perforazione, nel 1946, per avere il vapore necessario ad ottenere almeno 200 kW di potenza. Ma i risultati furono inferiori alle aspettative, perché furono trovati solo 3500 kg/h di vapore. Anche di questa centrale, al momento, non si sono trovati dati di produzione.

Quello che si conosce è che nel 1947, a causa della irregolarità di portata dei pozzi e delle incrostazioni, si comincia a dubitare di poter alimentare l’isola con energia elettrica prodotta da fonte geotermica. Si comincia, infatti, a progettare un cavo di alimentazione di collegamento dell’isola con la terraferma.

Considerazioni sulle esperienze fatte

Concludendo si possono trarre le seguenti considerazioni su questa storica esperienza di utilizzo dell’energia geotermica a scopi elettrici a Ischia:

– Gli studi fatti, in particolare dalla facoltà di Ingegneria dell’Universita’ di Napoli, erano, per la fine degli anni ‘30, all’avanguardia; l’ing d’Amelio aveva realizzato un impianto a cloruro di etile a metà degli anni ‘30, capace di produrre energia elettrica dalle acque calde, anticipando di oltre 30 anni lo sviluppo di questa tecnologia a livello mondiale;

– Gli eventi bellici hanno bloccato lo sviluppo degli studi.

– L’impianto di Cetara aveva temperature di evaporazione del fluido secondario intorno ai 60 °C perché nato per utilizzare fluidi a temperatura bassa; a fronte delle ultime perforazioni più profonde, era stato reperito fluido a circa 110 gradi, quindi l’impianto originale non era più adeguato;

– L’impianto geotermoelettrico a scarico libero di Sant’Angelo sfruttava un salto di pressione del vapore di solo 0,2 bar, meno di un decimo rispetto a quanto realizzato in impianti simili a Larderello, perciç non era adeguato al vapore reperito.

Non ci fu un ulteriore sviluppo tecnologico teso a migliorare i rendimenti di trasformazione e l’impiantistica soffriva anche della non costanza della portata dei pozzi.

Siamo alla fine degli anni 50, dove i piccoli impianti cedono il passo ai grandi progetti termoelettrici a petrolio. La volontà di produrre convenientemente energia elettrica dai vapori dell’isola d’Ischia cessa.

Questo non vuol dire che la popolazione di Ischia non utilizzi più la risorsa geotermica: le attività termali e turistiche ne sono la dimostrazione. Ma molto altro potrebbe essere fatto.

Insegnamenti che si possono trarre per il futuro

Bisogna evidenziare che l’utilizzo delle risorse geotermiche non è limitato alla produzione di energia elettrica, bensì ci sono gli utilizzi diretti, in particolare per quelle risorse a basso contenuto energetico per cui la conversione in energia elettrica perde efficienza.

Ci sarebbe la possibilità di utilizzare la risorsa geotermica per il riscaldamento ed anche per il raffreddamento, tramite cicli ad assorbimento. Esiste il modo di utilizzarla in alcuni processi industriali, dove non si richiedono alte temperature (acquacoltura, serre, pastorizzazione del latte, etc). Un  utilizzo dell’energia geotermica, quanto mai peculiare per le isole, è quello legato alla realizzazione di impianti per la desalinizzazione dell’acqua di mare.

Bisogna inoltre evidenziare che molti processi industriali sono figli della disponibilità di combustibili fossili con i quali si raggiungono facilmente, con la combustione, elevate temperature. Elevate temperature vuol dire tempi di reazione più brevi ed impianti più piccoli. Per utilizzare risorse geotermiche talvolta questi processi vanno ridisegnati, prendendo a riferimento le minime temperature effettivamente necessarie al processo.

Ormai non c’è più una sola fonte di energia che risolve tutti i problemi energetici, bisogna recuperare la volontà di ricercare tutti i minimi apporti con lo stesso spirito con cui, negli anni Venti, i sopra citati ing. Romagnoli e ing. D’Amelio cercavano di produrre energia in piccola scala, in modo distribuito, utilizzando al meglio le risorse disponibili. In altre parole possiamo dire che furono anche i precursori del moderno concetto di Comunità energetiche rinnovabili.

In ogni caso bisogna sempre sviluppare la tecnologia per adeguarla alle caratteristiche dei fluidi reperiti. A Ischia la tecnologia si è fermata ai primi progetti dell’ing. d’Amelio che,seppur rivoluzionari per l’utilizzo di fludi a 80 gradi, non sono stati adeguati, a seguito dell’evoluzione della perforazione che ha reperito fluidi con caratteristiche diverse, comportando la fine del loro uso, dietro il miraggio dell’utilizzo dei combustibili fossili come soluzione a tutti i problemi energetici.

Hanno collaborato alla ricerca The history of geothermal electric power plants on the Island of Ischia, Italy: Roberto Parri, Tiziana Mazzoni, Lorenzo Favaro, Paolo Basile, Stefano Orlando.