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Aspettando il vento dell’est: diario di viaggio di un economista in Cina

L'allarme inquinamento e il ruolo di Pechino alla COP-19 di Varsavia

La rapida ascesa che ha contraddistinto l’economia della Cina negli ultimi anni è stata accompagnata da un continuo incremento dei problemi ambientali del paese. Nelle ultime settimane tali problemi sono purtroppo saliti alla ribalta dei media internazionali allorché la città di Harbin, capoluogo della provincia di Heilongjiang, situata in Manciuria, nel nord-est della Cina ha “chiuso per inquinamento”.

Come riportava il China Daily lo scorso 22 ottobre, infatti, l’amministrazione di Harbin ha deciso di sospendere tutte le attività produttive e chiudere uffici pubblici e scuole in quanto i PM2.5 hanno raggiunto il livello record di 500 microgrammi per metro cubo (µg/m3), arrivando a toccare addirittura quota 1000 µg/m3 in alcuni quartieri della popolosa città (in cui vivono oltre 10 milioni di abitanti), a fronte della soglia di sicurezza di 20 µg/m3 raccomandata dall’Organizzazione Mondiale della Sanità. Lo smog in città ha ridotto la visibilità a meno di 10 metri, impedendo la circolazione dei mezzi pubblici e imponendo altresì la chiusura dell’aeroporto e delle autostrade.

Devo ammettere che siamo talmente assuefatti alle notizie catastrofiche che questi dati forse non mi avrebbero particolarmente allarmato se fossi stato comodamente seduto in poltrona a casa mia. Ma in quei giorni ho avuto un assaggio diretto della situazione poiché mi trovavo per lavoro a Pechino, dove il livello medio annuale dei PM2.5 è “solo” di 100 µg/m3, il sole alle 4 del pomeriggio tramonta dietro una fitta coltre di fumo (vedi la foto in alto a destra, ndr), il sovrappopolamento in certe ore impedisce di entrare fisicamente nella metropolitana – intendo nell’edificio stesso della metropolitana, prima ancora che nelle carrozze -, e il traffico è totalmente bloccato per buona parte della giornata, al punto che i taxisti nelle ora di punta si rifiutano di farti salire e accompagnarti a destinazione.

Niente di particolarmente diverso da tante metropoli del mondo occidentale se non nelle dimensioni, perché in Cina tutto sembra moltiplicato per un Milione (l’unità di misura scelta da Marco Polo per descrivere le meraviglie dei paesi attraversati). Tutto sembra indurre, nel bene o nel male, all’uso dei superlativi.

Nei giorni successivi alla chiusura forzata di Harbin, fortunatamente a Pechino il vento ha spazzato via lo smog, ma non la mia personale sensazione che il modello di sviluppo adottato anche in Cina seguendo l’esempio dei paesi occidentali non sia più sostenibile. La Cina, Paese dalle affascinanti tradizioni e dalla splendida cultura millenaria, ha scelto di seguire il modello di crescita dei paesi industrializzati, facendolo proprio ed anzi rafforzandolo e raggiungendo livelli di crescita record invece di proporre un proprio modello alternativo, una terza via tra il capitalismo selvaggio e l’economia pianificata del passato. Si è data anche un obiettivo ambientale estremamente ambizioso, ma l’ha fatto in termini di riduzione dell’intensità delle emissioni di anidride carbonica. Un obiettivo lodevole, ma non sufficiente: in teoria, infatti, è possibile ridurre tale intensità (pari al rapporto tra emissioni e PIL) facendo aumentare il PIL più rapidamente delle emissioni. Ma ciò che conta per il nostro pianeta è ridurre il livello assoluto del degrado ambientale; non basta ridurre l’intensità se questo comporta comunque un continuo aumento delle emissioni.

Gli obiettivi e le scelte che farà la Cina nei prossimi anni sono fondamentali per tutti noi non solo perché, come ben sappiamo, il riscaldamento globale del pianeta è indipendente da dove si producono i gas serra, ma anche perché è plausibile che la Cina svolga un ruolo sempre più egemone nelle trattative e negli accordi ambientali internazionali del futuro. Ruolo che del resto la Cina sta già svolgendo sul piano economico globale, come mostra la sua influenza sul debito pubblico USA (di cui essa è il maggior creditore estero).

Dopo l’iniziale leadership mondiale degli USA nella lotta al cambiamento climatico, il ruolo dominante è passato all’Europa, che si è data obiettivi via via più ambiziosi ed ha fatto del proprio Emission Trading System (ETS) e della riduzione conseguita nelle emissioni di CO2 un modello per gli altri paesi. Ma nella presente fase di smarrimento generata dalla profonda e prolungata crisi economica, le questioni ambientali fanno fatica a scaldare il cuore dell’opinione pubblica europea, ed ecco che la Cina potrebbe prendere il sopravvento sulla scena internazionale.

L’attacco sferrato all’Unione Europea da Su Wei, il capo delegazione aggiunto della Cina, alla Cop-19 sul cambiamento climatico in corso a Varsavia non fa che confermare questa impressione. Su Wei ha ragione ad affermare che l’obiettivo europeo di riduzione delle emissioni di gas serra del 20% entro il 2020 non è abbastanza ambizioso, dato che l’Europa l’ha già praticamente raggiunto con largo anticipo, anche se in gran parte grazie alla crisi economica. Sembra però dimenticare che ogni sforzo ulteriore da parte dell’Europa e dei paesi industrializzati (peraltro largamente auspicabile) è vano se le emissioni dei così detti paesi in via di sviluppo come la Cina aumenteranno più di quanto i primi riducano le proprie, perché quello che conta è il saldo globale. Non è riproponendo la dicotomia e cavalcando il conflitto tra paesi ricchi e poveri, né indicando la riduzione dell’intensità di emissioni come obiettivo futuro che la Cina potrà guidare verso traguardi tangibili la lotta al cambiamento climatico.

Qualunque sia il ruolo della Cina al tavolo delle trattative presenti e future, è fortemente auspicabile che essa non copi gli errori commessi in passato dai paesi industrializzati, ma trovi una sua identità di politica ambientale, una terza via capace di far convivere i pregi dell’economia di mercato su cui punta sempre più decisamente il governo cinese con la lunga tradizione di regolamentazione che caratterizza la storia del paese.

Una sfida difficile ma inevitabile se non vogliamo dover aspettare che cambi il vento (in senso fisico e metaforico) per poter tornare ad uscire di casa e non dover affiggere la scritta “chiuso per inquinamento” sulle nostre economie.

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