Il dilemma green delle miniere sottomarine in acque profonde: maledizione ambientale o salvezza?

Diva Amon: «Stiamo operando in un buco nero di informazioni. Ora l'estrazione mineraria commerciale sarebbe un errore»

[13 Agosto 2021]

Nei fondali oceanici più profondi ci sono enormi depositi di noduli di metalli delle dimensioni di una patata che potrebbero aiutarci nella nostra lotta contro il cambiamento climatico, ma la loro estrazione potrebbe anche danneggiare un mondo di cui sappiamo molto poco.

Come ricorda Horizon – The EU Research & Innovation Magazine, le tecnologie green, come le batterie per le auto elettriche, le turbine eoliche e i pannelli solari richiedono vari tipi di risorse rare che possono essere trovate nei fondali marini, «Tuttavia, allo stesso tempo, estrarli potrebbe rappresentare una maledizione ambientale e alcuni scienziati avvertono che potrebbe danneggiare gli ecosistemi di acque profonde di cui sappiamo poco e persino interrompere i processi oceanici».

Ma le compagnie estrattive spingono per poter sfruttare le risorse minerari delle acque profonde e attualmente una trentina di imprese ha concessioni per esplorare il fondo dell’Oceano Pacifico e tra queste ci sono giganti come la Lockheed Martin (difesa e aerospaziale), la belga DEME e la maritime technology company olandese Royal IHC.

La Royal IHC ha una grande esperienza in settori come il dragaggio e la costruzione di impianti  offshore e negli ultimi anni ha sviluppato la tecnologia necessaria per estrarre noduli polimetallici a grandi profondità. Si tratta generalmente di noduli che hanno una dimensione che varia a 1 a 15 cm di larghezza, tra una pallina da golf e una grande patata, e che contengono metalli e minerali che sono fondamentali per la green economy.

In alcune aree questi piccoli noduli occupano letteralmente il fondale marino, ma portarli in superficie è una costosa sfida che la Royal IHC ha affrontato anche con progetti come Blue Nodules.

Laurens de Jonge, manager per l’estrazione sottomarina di Royal IHC, ha spiegato a Horizon che «Non è così romantico come i viaggi sottomarini di cui puoi leggere in Jules Verne. La logistica è la cosa più difficile, perché dobbiamo ampliare queste operazioni in modo che l’estrazione possa essere eseguita su scala industriale».

Il processo inizia con un modulo sottomarino senza equipaggio legato a una imbarcazione in superficie. Questo mezzo da lavoro sottomarino estrae idraulicamente i noduli spingendoli verso l’alto, quindi, li risucchia in un grande tubo che li porta in superficie, 5.000 metri più su, dove i noduli vengono raccolti sulla nave e separati il ​​più possibile dall’acqua e dai sedimenti prima di essere trasportati a terra. Sembra abbastanza semplice, ma l’intera catena di estrazione può essere molto fragile. Nell’aprile di quest’anno, il robot da 25 tonnellate Patania II, della compagnia mineraria GSR, che partecipa a Blue Nodules, è rimasto bloccato nel fondo del Pacifico. Inoltre, come spiega lo stesso de Jonge  «Il tubo deve avere un flusso costante. Se c’è un’interruzione può trasformarsi in un dramma, perché tutte le rocce ei sedimenti raccolti nel tubo lungo 5.000 metri scenderanno di nuovo».

Un altro problema si verifica quando i noduli vengono trasbordati su altre navi: l’acqua e i sedimenti rimanenti possono accumularsi da un lato della stiva della nave, portandola a inclinarsi o addirittura a capovolgersi.

Intanto, sempre più scienziati si chiedono non solo se possiamo estrarre minerali a quelle  profondità, ma se dovremmo farlo.  Diva Amon è una biologa marina di Trinidad specializzata in profondità oceaniche, sta studiando proprio se l’estrazione mineraria potrebbe causare danni alla vita sottomarina e fa notare  che «Il mare profondo è una delle poche aree della Terra in gran parte inesplorate. Ogni volta che scendi in profondità trovi nuove specie e habitat. E’ una cosa fantastica di cui far parte».

Le aree nelle quali potrebbe avvenire l’estrazione dei noduli in acque profonde sono in gran parte inesplorate e spesso ci c vivono molte specie sconosciute. Grazie al progetto Scan-Deep, la Amon ha cercato di capire quante e quali specie possano vivere nella Clarion-Clipperton Zone, un’area dell’Oceano Pacifico che si estende su 4,5 milioni di chilometri quadrati, circa la metà degli Stati Uniti, con profondità fino a 5.500 metri e dove potrebbe iniziare l’estrazione mineraria sottomarina.

La Amon e il suo team hanno cercato di mappare gli animali più grandi che vivono nella Clarion-Clipperton Zone: «Mi concentro sugli animali più lunghi di 2 centimetri – ha detto la scienziata a Horizon – Li analizziamo in due modi: raccogliendo immagini o video delle profondità oceaniche e raccogliendo campioni degli esemplari».

La cosa funziona così: un sottomarino senza equipaggio (ROV) si immerge e gira filmati di esemplari sul fondo dell’oceano, o addirittura ne prende alcuni. Insieme ad altri team di tutto il mondo, la Amon e i suoi collaboratori classificano la megafauna nell’area.

Visto che pesci dall’aspetto terrificante che vivono a quelle profondità si spaventano facilmente di fronte al ROV, i ricercatori studiano soprattutto invertebrati come spugne o coralli. Ma i risultati di queste ricerche sono comunque impressionanti: «Fino all’80% della megafauna individuata durante la ricerca erano nuove specie, a testimonianza di quanto poco sappiamo dell’area». Il team della Amon ha anche scoperto giacimenti di fossili sul fondo del mare, contenenti ossa di balena, denti di squalo e resti di specie estinte.

La Amon è molto preoccupata: «In questo speciale ecosistema stiamo per dedicarci all’attività mineraria, che rappresenta un’operazione delicata. Abbiamo pochi pixel di informazioni su questi luoghi. Siamo spesso le prime persone ad andarci. Stiamo faticando anche solo per vedere cosa ci vive, figuriamoci per capire l’ecologia di questi ecosistemi. Stiamo operando in un buco nero di informazioni e abbiamo bisogno di molta più ricerca scientifica prima di poter decidere se consentire l’estrazione commerciale su larga scala lì». I test per l’estrazione in acque profonde sono buoni, perché forniscono maggiori informazioni. Ma avremmo bisogno di almeno altri dieci anni di ricerca prima di poter ragionevolmente consentire l’estrazione mineraria su scala commerciale. L’estrazione mineraria potrebbe danneggiare le profondità marine in diversi modi. I veicoli potrebbero distruggere la parte superiore del fondale marino, portando a un’inevitabile perdita di vite tra gli animali presenti. Ancora più importante, i robot potrebbero anche emettere pennacchi di sedimenti, che potrebbero ricoprire la fauna nell’area intorno al sito minerario. L’oceano è molto interconnesso. Spesso non sappiamo nemmeno come funzionano le correnti laggiù. Ci sono molte incognite. Potrebbero esserci impatti tossici o dei sedimenti. La pesca ne risentirà? Avrà un impatto sul sequestro del carbonio? Queste sono grandi domande, e non si tratta solo degli impatti diretti ma anche di quelli indiretti. Queste grandi domande significano che dovremmo andare avanti con precauzione»

Intanto, il progetto Blue Nodules ha fatto un test sull’impatto ambientale delle miniere sottomarine concentrandosi sui pennacchi di sedimenti che potrebbero causare. I ricercatori del Royal Netherlands Institute for Sea Research, partner del progetto, hanno realizzato una griglia di sensori in un’area e poi hanno testato fino a che punto si sarebbero diffusi i pennacchi.  De Jonge spiega ancora: «Vogliamo limitare la diffusione dei pennacchi, in modo che non danneggi un’area più ampia. Li abbiamo modellati e verificati e siamo riusciti a ridurne la diffusione».

Nel frattempo, l’International Seabed Authority (ISA), un’organizzazione legata all’Onu, sta discutendo le regole per l’estrazione in acque profonde, che dovrebbero essere definite nei prossimi due anni. Scienziati come la Amon, ma anche compagnie come Royal IHC, stanno intervenendo nei meeting organizzati dall’ISA per cercare di definire un quadro entro il quale possano aver luogo la sperimentazione e forse anche l’estrazione commerciale su larga scala.

Secondo de Jonge, «Avremo bisogno di qualche anno in più di test, con la tecnologia pronta per l’industria mineraria intorno al 2025».  Che è molto prima del periodo di prova di dieci anni suggerito dalla Amon.

Anche detto de Jonge è consapevole che si tratta di attività rischiose: «Sono contrario all’estrazione in acque profonde se ci sono alternative per darci le risorse necessarie. A volte lo chiamiamo il dilemma green, perché l’umanità dipende da queste risorse se vuole sopravvivere ai cambiamenti climatici».

La Amon conclude: «Penso che sia molto razionale chiedere una pausa nella transizione dall’esplorazione allo sfruttamento commerciale. Questo non significa che dovremmo interrompere la creazione di politiche o la ricerca scientifica, ma in questa fase, data la scarsità di informazioni di cui disponiamo, l’estrazione mineraria commerciale sarebbe un errore».