Non pescate i pesci grossi, sono amici del clima

L’inatteso e duplice impatto della pesca industriale sul cambiamento climatico

[4 Dicembre 2020]

Un pesce che muore di morte naturale nell’oceano è un pesce che affonda nelle profondità, portandosi con sé tutto il carbonio che contiene. Invece, quando un pesce viene pescato la maggior parte del carbonio che contiene viene rilasciato nell’atmosfera sotto forma di CO2.

Il recente studio “Let more big fish sink: Fisheries prevent blue carbon sequestration—half in unprofitable areas”, pubblicato su Science Advances da un consorzio di ricercatori francesi, canadesi e statunitensi guidato dal Centre pour la biodiversité marine, l’exploitation et la conservation – MARBEC (Universté de Montpellier – CNRS – IRD – Ifremer), stima che, «A causa di questo fenomeno, le emissioni di CO2 legate alla presca sono in realtà il 25% più elevate di quanto considerato finora attraverso il consumo di carburante. Senza contare che una parte del carbonio estratto dagli oceani proviene da zone in cui la pesca non è economicamente redditizia».

Lo studio, realizzato da MARBEC in collaborazione con le università della British Columbia, California – Santa Barbara, Institut Universitaire de France, Wwf, National Geographic e Spygen, ricorda che «Tonni, squali, macarelli, pesci spada, questi grandi pesci sono costituiti dal 10 al 15% di carbonio. Quando muoiono, affondano rapidamente a grandi profondità. Risultato: la maggior parte del carbonio che contengono è sequestrato nell’oceano profondo per migliaia, forse milioni, di anni. Costituiscono dunque dei pozzi di carbonio la cui ampiezza non era mai stata stimata.

Ma lo studio dimostra che questo fenomeno naturale, una vera e propri “pompa del carbonio”, è fortemente disturbato dalla pesca industriale. Analizzando le statistiche sulla pesca di tonni, squali, pescispada e macarelli dal 1950 fino ai giorni nostri, il potenziale perso è a un livello impressionante: i ricercatori hanno ipotizzato che ogni pesce catturato contenga circa il 12,5% di carbonio rispetto al suo peso corporeo e che il 94% di questo venga infine emesso nell’atmosfera durante la lavorazione e il consumo. In aggiunta a questo, hanno preso in considerazione le emissioni derivanti dall’uso di carburante delle navi che si sono avventurate sempre più in mare alla ricerca di pesce negli ultimi 70 anni.  Ne è venuto fuori che, complessivamente, dal 1950 la pesca, soprattutto quella industriale, ha emesso circa 730 milioni di tonnellate di anidride carbonica nell’atmosfera. Lo studio ha calcolato che, solo nel 2014, la pesca ha rilasciato 20,4 milioni di tonnellate di anidride carbonica, derivante dai peci catturati e dal carburante consumato, l’equivalente delle emissioni annuali di 4,5 milioni di auto e a quasi il 20% del calo delle emissioni europee tra gennaio e aprile di quest’anno, diminuita a causa della pandemia di coronavirus.

Il principale autore dello studio, Gaël Mariani del MARBEC – Universté de Montpellier, spiega che «Quando un pesce viene catturato, il carbonio che contiene viene in parte emesso nell’atmosfera sotto forma di CO2 pochi giorni o settimane dopo la sua cattura e consumo. La pesca industriale emetterebbe quindi due volte CO2 nell’atmosfera: non solo le barche emettono massicciamente gas serra consumando olio combustibile, ma in più, estraendo pesce dall’acqua, rilasciano CO2 che altrimenti rimarrebbe imprigionata nell’oceano».

Un altro autore dello studio David Mouillot, del Marbec e dell’Institut Universitaire de France, evidenzia che «E’ la prima volta che stimiamo la quantità di questo “carbonio blu” che viene rilasciato nell’atmosfera dalla pesca». Una stima che non è certo trascurabile, visto che il team di ricercatori ritiene che questo deficit nel sequestro del carbonio nelle profondità oceaniche rappresenterebbe oltre il 25% della precedente impronta di carbonio dell’attività di pesca.

Le cifre sciorinate dallo studio evidenziano cosa si potrebbe ottenere se lasciassimo pesci più grandi in mare, a seguire il loro corso naturale. Ma il pesce è anche una parte essenziale delle diete globali e diventerà sempre più importante man mano che la popolazione umana globale crescerà e che cercheremo di sostituire la carne rossa con altre fonti proteiche. Ma, come fa notare Emma Bryce su Anthropocene, «Ciò che è comunque importante considerare è quanto di questo pesce pescato abbiamo davvero bisogno di consumare su scala globale, e quanto alla fine va sprecato, quando altrimenti avrebbe potuto servire meglio il pianeta come carbonio stoccato nel mare.

Mouillot  conferma che, secondo questo sorprendente studio, «Tre quarti di queste emissioni reali sono legate al consumo di carburante, e un quarto deriva dal fatto che il carbonio contenuto nel pesce catturato viene rilasciato sotto forma di CO2 nell’atmosfera invece di rimanere sepolto nel fondale marino».

Secondo gli autori dello studio, questi nuovi dati costituiscono un argomento pesante a favore di una pesca più intelligente e Mariani fa notare  che «La disattivazione a causa della pesca della pompa di carbonio rappresentata da questi grossi pesci suggerisce che devono essere messe in atto nuove misure di protezione e gestione, in modo che alcuni dei pesci di grandi dimensioni restino un pozzo di carbonio e non diventino più un’ulteriore fonte di CO2».

Limitare la portata di queste attività di pesca inefficienti e non redditizie potrebbe essere un primo passo per lasciare in mare più pesci di grandi dimensioni che stoccano il carbonio. Usa, Spagna, Cina, Giappone, Indonesia e Taiwan sono stati  i Paesi he hanno estratto la quota maggiore di carbonio blu dal 1950 in poi, quindi questi Paesi in futuro potrebbero essere un obiettivo per misure per cercare di ridurre questo  impatto.

Ma la Bryce si chiede provocatoriamente: «Perché prendere questa strada non convenzionale per il sequestro del carbonio; quanto può davvero ottenere?» e si risponde: « Come sottolineano i ricercatori, il raggiungimento degli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima richiederà tutto lo sforzo che possiamo mettere insieme e la creazione di riserve di carbonio blu è una soluzione che può avvicinarci almeno in modo progressivo a tale obiettivo». E Mariani  aggiunge: «Il nostro studio può servire come nuovo argomento per l’introduzione di pratiche di pesca più sostenibili».

Dato che le stime dello studio sono prudenziali e riguardano solo specie di pesci di grossa taglia, i ricercatori pensano di aver probabilmente sottovalutato il potenziale di cattura del carbonio da parte delle specie marine. Analisi future potrebbero persino rivelare che il sequestro del carbonio attraverso i pesci è maggiore di quanto stimato, il che potrebbe allinearlo più strettamente ai vantaggi di misure di mitigazione più note, come il ripristino delle zone umide costiere.

Mouillot conclude: «Soprattutto, si deve pescare meglio. Uno dei nostri obiettivi ora è stimare come pratiche di pesca sostenibili aumenterebbero la capacità naturale dei pesci di sequestrare il carbonio, I pescherecci a volte vanno in zone molto remote, il che causa un enorme consumo di carburante, anche se le catture di pesce in queste zone non sono redditizie e questa pesca è praticabile solo grazie ai sussidi I ricercatori stimano che il 43,5% di questo “carbonio blu” estratto dalla pesca provenga da tali aree. Limitare l’estrazione di questo “carbonio blu” economicamente non redditizio aiuterebbe quindi a ridurre le emissioni di CO2 limitando il consumo di olio combustibile e riattivando una pompa del carbonio naturale ed economica».

Perché più pesci grossi lasciamo in mare, più “cibo” diamo alla natura per continuare a poter svolgere il suo straordinario lavoro.