I muri della morte nell’Oceano indiano

Greenpeace: la pesca con le reti derivanti minaccia i mezzi di sussistenza

[13 Aprile 2021]

Il nuovo rapporto “High Stakes: The environmental and social impacts of destructive fishing on the high seas of the Indian Ocean” pubblicato da Greenpeace International denuncia che «La pressione della pesca in alto mare nell’Oceano Indiano sta minacciando la salute degli oceani, i mezzi di sussistenza costieri e le specie iconiche, con i governi che non agiscono».

La nuova indagine realizzata da Greenpeace UK nell’Oceano Indiano nordoccidentale rivela che: le reti da posta derivanti impiegate sui larga scala, chiamate “muri di morte” e bandite dall’Onu 30 anni fa, «Continuano ad essere ampiamente utilizzate, portando alla decimazione della vita marina nella regione». Negli ultimi 50 anni, nell’Oceano Indiano le popolazioni di squali sono diminuite dell’85%. Greenpeace Regno Unito ha visto 7 pescherecci calare insieme reti derivanti creando due muri della morte lunghi oltre 21 miglia e ha documentato la cattura accidentale di specie in via di estinzione come le mante.  Nell’Ov ceano pacifico è a in rapida espansione la pesca ai calamari senza regolamentazione internazionale. Greenpeace sottolinea che «La pesca è stata gravemente mal gestita da istituzioni e decisori politici deboli, tra le quali, più recentemente, la Indian Ocean Tuna Commission, dove l’influenza dell’industria europea ha avuto come risultato l’incapacità dei suoi meeting di concordare misure per combattere la pesca eccessiva».

Secondo Will McCallum, della campagna Protect the Oceans di Greenpeace UK ,  «Queste scene devastanti sono solo un assaggio dei nostri oceani senza legge, sappiamo che ci sono molte altre flotte da pesca che operano all’ombra della legislazione. Riducendo la sua ambizione  al servire gli interessi delle compagnie delle pesca industriale, l’Unione europea è complice nell’accumulare la pressione su questo fragile ecosistema, traendo vantaggio dalla mancanza di controllo sugli oceani globali. Non possiamo permettere che l’industria della pesca continui nel suo business as usual, dobbiamo fare in modo che i miliardi di persone che fanno affidamento sugli oceani sani possano sopravvivere».

Secondo il rapporto dell’High Level Panel of Experts on World Food Security. Sustainable fisheries and aquaculture for food security and nutrition della Fao, una pesca ben gestita è fondamentale per la sicurezza alimentare delle comunità costiere di tutto il mondo, in particolare nel Sud del mondo. Le popolazioni rivierasche dell’Oceano Indiano rappresentano il 30% dell’umanità e l’oceano fornisce la principale fonte di proteine a 3 miliardi di persone.

Il rapporto rivela anche come le pratiche di pesca distruttive, in particolare i dispositivi di aggregazione dei pesci dispiegati da flotte di proprietà europea, stiano cambiando gli habitat dell’Oceano Indiano occidentale a un livello senza precedenti, con circa un terzo delle popolazioni ittiche valutate che è sovrasfruttato. Lo “Status of the World Fisheries for Tuna: November 2020. In ISSF Technical Report“ evidenzia che «L’Oceano Indiano rappresenta circa il 21% delle catture mondiali di tonno, facendone la seconda regione più grande per la pesca del tonno».

Il rapporto di Greenpeace International dimostra che «Le organizzazioni regionali di gestione della pesca non sono in grado di agire in modo decisivo per proteggere la vita marina, consentendo invece a una manciata di governi che sostengono interessi aziendali ristretti di sfruttare le risorse oceaniche».

McCallum conclude: «I leader mondiali hanno la possibilità di trasformare il destino dell’alto mare accordandosi su un forte Global Ocean Treaty  alle Nazioni Unite. Questo storico trattato può creare strumenti per ritornare indietro rispetto alla distruzione degli oceani e resuscitare gli ecosistemi marini, proteggendo specie inestimabili e sostenendo le comunità costiere per le generazioni a venire».