Quantificata l’impronta delle costruzioni umane sull’oceano

Opere antropiche su 30.000 Km2 degli oceani e le infrastrutture aumenteranno rapidamente nel prossimo decennio

[10 Settembre 2020]

Secondo lo studio “Current and projected global extent of marine built structures”, pubblicato recentemente su Nature Sustainability  da un team internazionale di ricercatori che ha visto la partecipazione di Laura Airoldi delle università di Padova e Bologna, ha mappato per la prima volta l’estensione delle infrastrutture umane  negli oceani che ormai occupano un’area totale di circa 30.000 chilometri quadrati. L’equivalente dello 0,008%  del mare è stato modificato dalla costruzione umana.

Il gteam guidato da Ana Bugnot  dell’università di Sydney ha infatti scoperto che «L’estensione dell’oceano modificato dalle costruzioni umane è, in proporzione, paragonabile all’estensione della terra urbanizzata e maggiore dell’area globale di alcuni habitat marini naturali, come le foreste di mangrovie e le praterie di fanerogame».

Per ora, la maggior parte delle infrastrutture marine si trova lungo le e coste del mondo. Il 99% dello sviluppo sottomarino (praticamente tutto tranne i cavi sottomarini) si è verificato entro 200 miglia nautiche dalla costa, all’interno delle zone economiche esclusive (Zee) dei singoli Paesi. I ricercatori hanno calcolato che  nel 2018 le costruzioni in mare interessavano circa l’1,5% di queste Zee, un’are paragonabile alla percentuale di terraferma occupata dalle aree urbane.

Si prevede che in futuro le infrastrutture per l’energia fossile e rinnovabile si espanderanno anche in acque più profonde in futuro e potrebbero esserci anche nuovi tipi di sviluppo oceanico, come l’estrazione mineraria in acque profonde.

Il 40% dello sviluppo marino globale si trova nelle acque cinesi, che comprendono oltre l’1% della Zee della Repubblica popolare. La piccola Corea del Sud rappresenta il 10% dello sviluppo marino, con infrastrutture che occupano più del 7,5% della sua Zee e le Filippine l’8% e  lo 0,1% della sua Zee.

A fare la parte del leone è l’acquacoltura con oltre il 70% dell’area direttamente interessata da impianti marini (il 40% in Cina), i porti commerciali occupano il 14% del mare costruito e le barriere artificiali l’11%. Quasi la metà delle piattaforme petrolifere offshore si trova nell’area statunitense del Golfo del Messico, mentre le infrastrutture per le energie rinnovabili sono concentrate al largo delle coste del Regno Unito.

Quando si tratta di effetti indiretti, i porti commerciali e turistici hanno di gran lunga l’impronta maggiore, rappresentando oltre il 96% del totale delle modifiche provocate dallo sviluppo marittimo, cosa in gran parte dovuto alla vasta portata dell’inquinamento acustico proveniente dai porti, che può causare difficoltà alle specie in via di estinzione che popolano le acque vicine.

Se nell’impronta antropica si contano anche le aree modificate dagli effetti del mare sulle aree circostanti, ad esempio, a causa dei cambiamenti sulle foci e sulle paludi costiere e dell’inquinamento dell’acqua, l’impronta antropica è in realtà di 2 milioni di chilometri quadrati, o oltre lo 0,5% dell’oceano.

Le modifiche degli oceani includono le aree interessate da tunnel e ponti; infrastrutture per l’estrazione di energia (piattaforme petrolifere e del gas, parchi eolici, ecc.); porti commerciali e turistici; infrastrutture per l’acquacoltura; barriere artificiali.

La Bugnot ha ricordato che «Lo sviluppo degli oceani non è una novità, ma negli ultimi tempi è cambiato rapidamente. E’ in corso da prima del 2000 Ac. Successivamente, ha sostenuto il traffico marittimo attraverso la costruzione di porti commerciali e ha protetto le coste basse con la creazione di strutture simili a frangiflutti. Tuttavia, a partire dalla metà del XX secolo,  lo sviluppo oceanico ha dilagato e prodotto sia risultati positivi che negativi. Ad esempio, mentre le barriere artificiali sono state utilizzate come “habitat sacrificale” per favorire il turismo e scoraggiare la pesca, queste infrastrutture possono anche avere un impatto su habitat naturali sensibili come le fanerogame marine, le distese fangose ​​e le paludi salmastre, influenzando di conseguenza la qualità dell’acqua. Lo sviluppo marino si verifica principalmente nelle zone costiere, gli ambienti oceanici più ricchi di biodiversità e biologicamente produttivi».

Il team internazionale ha anche previsto il tasso di espansione futura dell’impronta oceanica e la  Bugnot avverte che «I numeri sono allarmanti. Ad esempio, si prevede che le infrastrutture per l’energia e l’acquacoltura, compresi cavi e tunnel, entro il 2028 aumenteranno dal 50 al 70%. Eppure questa è una sottostima: c’è una carenza di informazioni sullo sviluppo degli oceani, a causa della sua scarsa regolamentazione in molte parti del mondo. C’è un urgente bisogno di una migliore gestione degli ambienti marini. Ci auguriamo che il nostro studio stimoli iniziative nazionali e internazionali, come la direttiva quadro sulla strategia per l’ambiente marino dell’Ue, a una maggiore azione».

Dai progetti di infrastrutture marine pianificati, si stima che entro il 2028 la nostra impronta marina diretta crescerà di quasi un quarto, fino a raggiungere i 39.400 km2. In particolare, si prevede che cresceranno molto rapidamente infrastrutture energetiche alternative come onde, maree ed eolico e acquacoltura.

I ricercatori hanno attribuito l’espansione prevista alla crescente necessità delle persone di realizzare difese contro l’erosione costiera e le inondazioni dovute all’innalzamento del livello del mare e ai cambiamenti climatici, nonché alle loro esigenze di trasporto, estrazione di energia e ricreazione.