Con la manovra finanziaria si vendono gli immobili pubblici, scavalcando le competenze urbanistiche dei Comuni

Col maxi-emendamento la maggioranza ha pensato di utilizzare la legge 410 del 23 novembre 2001 approvata dal governo Berlusconi

[24 Dicembre 2018]

Ogni volta che c’è un buco da tappare spunta l’idea di vendere il patrimonio immobiliare dello Stato. Ed è quello che è venuto in mente al ministro per l’Economia Giovanni Tria durante la trattativa con Bruxelles, sfociata nella recente approvazione del maxi-emendamento alla manovra finanziaria da parte del Senato. Inizialmente erano 18 i miliardi di euro che il governo avrebbe voluto ricavare dalla vendita degli immobili pubblici nel 2019, cifra irraggiungibile, tenuto conto che, secondo la Nota aggiuntiva al Def del 2018 (pag. 45), i ricavi dalle dismissioni immobiliari erano stati di 945 milioni nel 2016 e di 649 milioni nel 2017.

Si è quindi scesi alla più ragionevole cifra di 950 milioni nel 2019, e 150 nel 2020 e 2021. Anche perché i 5 Stelle sono sempre stati contrari alle privatizzazioni, tanto che nel 2013, nel loro blog si leggeva: «No alle privatizzazioni. Lo Stato e i suoi beni sono dei cittadini, non dei politicanti. In alto i cuori!». Cuori che evidentemente sono ora scesi a più miti consigli con il vicepresidente Di Maio che rassicura: «I gioielli di famiglia non verranno toccati».

Il patrimonio immobiliare pubblico censito due anni fa dal ministero dell’Economia (Mef) era stimato 283 miliardi di euro. Ma il 77% è usato direttamente dall’amministrazione pubblica ed è inalienabile. Il valore degli immobili non utilizzati e quindi commerciabili viene stimato in 12 miliardi. Stima che è solo sulla carta, poi occorre trovare chi quegli immobili intende acquistare.

Per vendere occorre infatti che l’investimento sia potenzialmente redditizio. Col mercato immobiliare ancora fermo dopo la crisi del 2007, la maggior resa si ha, specie nelle città d’arte e nelle località turistiche, con l’uso ricettivo, alberghiero o commerciale. Usi che non sempre sono permessi, specie per particolari contesti urbanistici o in edifici che non hanno le caratteristiche tipologiche per poterli ospitare.

Per ovviare a questi problemi col maxi-emendamento la maggioranza ha pensato di utilizzare la legge 410 del 23 novembre 2001 approvata dal governo Berlusconi nell’ambito della cartolarizzazione degli immobili pubblici, ampliandone le maglie. Un metodo simile a quello utilizzato per il condono di Ischia. Questo ha sollevato le proteste di Angelo Bonelli, Sauro Turroni e Claudia Mannino, esponenti dei Verdi: «M5S e la Lega hanno deciso di sfasciare e vendere alla speculazione edilizia i centri storici delle nostre città».

Vediamo perché. La legge 410/2001 prevedeva la valorizzazione degli immobili pubblici attraverso le conferenze di servizi e gli accordi di programma promossi dal Mef, da stabilirsi con gli enti locali che avrebbero beneficiato di una quota del ricavato dalla vendita degli immobili. Ora con il comma 223.undecies del maxi-emendamento si ampliano i cordoni: «Oltre a quanto consentito dai provvedimenti adottati all’esito delle conferenze dei servizi e degli accordi di programma […] per gli immobili oggetto di tali provvedimenti sono ammissibili anche le destinazioni d’uso e gli interventi edilizi consentiti, per le zone territoriali omogenee all’interno delle quali ricadono tali immobili, dagli strumenti urbanistici generali e particolareggiati vigenti». Inoltre «gli interventi edilizi sono assentibili in via diretta».

In generale nei piani urbanistici le destinazioni d’uso come ricettivo o commerciale sono consentite in quasi tutte le zone omogenee, salvo poi differenziarle per edificio in funzione della tipologia edilizia e il particolare contesto che ad esempio non ammette l’incremento di un carico urbanistico derivante da un uso commerciale. Con la norma approvata invece queste destinazioni, quando ammesse per la zona omogenea sono ammesse per tutti gli edifici di proprietà pubblica inclusi nella zona, prevedendo un diverso regime urbanistico per una categoria di immobili classificata per tipo di proprietà e non con criteri urbanistici e edilizi.

In sostanza, per gli immobili pubblici già passati attraverso la conferenza di servizi si modificano le decisioni prese, mentre si svuotano i poteri delle nuove conferenze di servizi dal momento che, per questi edifici, saranno a-priori consentiti tutti gli usi e gli interventi edilizi più ampi, come demolizione e ricostruzione, ammessi nella zona territoriale omogenea. Inoltre basterà presentare la sola domanda di autorizzazione a costruire per dare inizio ai lavori.

In sostanza si tratta l’intervento su questi edifici alla stregua della edificazione in area di espansione, come avveniva negli anni della crescita demografica e urbanistica, quando il piano urbanistico era composto di zone di espansione con le destinazioni d’uso, e i tipi di intervento validi su tutta l’area omogenea, come previsto nel decreto 1444/68. In sostanza un ritorno al passato in grande stile.

Con la differenza che non siamo più nell’epoca dell’espansione edilizia e che si tratta di intervenire su immobili esistenti, in alcuni casi di valore storico artistico e non in aree inedificate. E che inoltre le competenze in materia di governo del territorio, dopo la riforma del titolo V della Costituzione, sono passate alle regioni che difficilmente si lasceranno prevaricare da una legge nazionale che elimina le competenze comunali in un modo così rozzo.