Ricerca e innovazione sono la cura che serve all’Italia, ma agli italiani interessa?

Cnr: «Sono alimentate anche dalle conoscenze, abilità e competenze presenti nella popolazione». Che sono drammaticamente scarse

[5 Luglio 2018]

Il presidente Inps Tito Boeri, illustrando ieri alla Camera l’ultimo rapporto annuale dell’Istituto nazionale di previdenza sociale, ha spiegato quanto sia difficile costruire «profonde innovazioni tecnologiche ed organizzative» in un Paese come il nostro in drastico declino demografico e al contempo «perde più di 100.000 giovani all’anno», quelli che scappano all’estero in cerca di lavoro e migliori prospettive di vita. Un macigno sullo sviluppo del Paese che offre l’occasione di interrogarci: da dove ripartire? Uno spunto di grande interesse è arrivano nei giorni scorsi dal Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), che dopo lungo tempo ha elaborato una nuova Relazione sulla ricerca e l’innovazione in Italia – cui ha collaborato anche Daniela Palma, economista Enea e del nostro think tank redazionale.

«In questa prima Relazione – spigano dal Cnr, preannunciando ulteriori approfondimenti sul tema – abbiamo dedicato particolare attenzione ai confronti internazionali: osservando le prestazioni dell’Italia insieme con quelle dei suoi maggiori partner, ma anche concorrenti, si riesce forse a inquadrare meglio quale sia la posizione del Paese e le sfide che deve affrontare nei prossimi anni». Il quadro di partenza, com’era facile attendersi è tutt’altro che incoraggiante; al contempo mostra però anche ampie possibilità di sviluppo, che potremmo – e dovremmo percorrere – facendo leva sulle eccellenze in fatto di innovazione e ricerca di cui il Paese è dotato, pur non riuscendo ancora a valorizzarle adeguatamente e metterle a sistema.

Ad oggi è però necessario sapere che le risorse destinate alla R&S mostrano un livello di spesa «molto inferiore rispetto ad altri paesi dell’Europa occidentale», e con «un andamento decrescente negli anni», ferme all’1,33% del Pil. E non è un caso se da 15 anni a questa parte l’Italia ha sempre mantenuto «l’ultimo posto tra i paesi considerati per numero di ricercatori ogni mille occupati nell’industria».

Sia il pubblico sia il privato latitano. La spesa per R&S svolta nelle università è cresciuta dal 2000 al 2015 dallo 0,32% del Pil allo 0,38% quella delle istituzioni pubbliche è invece calata nello stesso periodo dallo 0,20% allo 0,18%; quella delle imprese è sì cresciuta, ma «in rapporto al Pil registra tuttora un valore che è la metà di quello medio europeo». Anche i dati sui brevetti «confermano che l’Italia ha una bassa attività inventiva. Tra i principali paesi europei ha un’intensità di brevetti pro-capite superiore solo alla Spagna, e non si osservano segnali che indichino che il Paese stia recuperando posizioni».

È fondamentale capire che si tratta di limiti che vanno oltre il “solo” mondo scientifico, ma frenano a tutto campo le possibilità di sviluppo del Paese: «Sotto il profilo del commercio internazionale di prodotti ad alta tecnologia – evidenzia infatti il Cnr – occorre rilevare la posizione di relativa marginalità dell’Italia», che si colloca «in una posizione di retrovia non solo rispetto alle maggiori economie europee, guidate dalla Germania, Francia e Regno Unito, ma anche rispetto a paesi di più piccola dimensione, quali i Paesi Bassi e il Belgio». È vero che nei settori tradizionali del made in Italy, quali alimentari e bevande, tessile e abbigliamento, carta ed editoria e mobili, le imprese italiane sostengono spese per l’innovazione più elevate rispetto alla media europea, ma è un’eccezione che da sola non basta più: «La tradizionale anomalia dell’Italia – essere tra le principali nazioni industrializzate avendo un investimento in R&S molto basso sia in valore assoluto che in rapporto agli indicatori economici di produzione della ricchezza – diventa oggi molto rischioso visti i processi crescenti di globalizzazione delle economie e l’importanza della collaborazione internazionale su temi scientifico-tecnologici che richiedono la mobilitazione di forti investimenti».

Non tutto però è perduto: l’Italia ha (avrebbe?) tutte le carte in regola per risalire la china. Nonostante le carenze strutturali appena ricordate, i risultati dell’analisi delle pubblicazioni scientifiche «mostrano un cospicuo e inaspettato aumento della produzione italiana sia in termini assoluti sia in termini di quota mondiale». Mentre nel 2000 l’Italia ricopriva «la terz’ultima posizione tra i paesi analizzati in termini di citazioni per pubblicazione, oggi ha raggiunto il Regno Unito, da sempre al vertice in questa classifica», con risultati eccezionali soprattutto in fisica e medicina. Anche se «le ragioni che hanno condotto a questo miglioramento complessivo della performance sono da approfondire», di certo c’è che i nostri ricercatori sono capaci di fare necessità virtù: i dati mostrano che «i ricercatori italiani fanno bene il loro lavoro, nonostante le condizioni estremamente difficili nelle quali si trovano a operare a causa della scarsità delle risorse disponibili». Da soli però si fa poco.

Perché l’Italia sia in grado di assumere la leadership in settori emergenti e innovativi, lo sforzo individuale «deve essere accompagnato da un supporto di tipo istituzionale per poter produrre un impatto sull’economia e la società».

È questa mancanza l’anello debole della catena. E in parte la responsabilità è di tutti noi, in quanto «le attività di ricerca e innovazione di una nazione sono alimentate anche dalle conoscenze, abilità e competenze presenti nella popolazione». E su questo fronte la performance nazionale è disastrosa: come confermano anche i dati più recenti, il 70% degli italiani rientra nei confini dell’analfabetismo funzionale, in quanto non ha il bagaglio culturale minimo “per svolgere in modo adeguato i compiti dell’età adulta”. Più in dettaglio, secondo l’indagine internazionale Ocse-Piaac in Italia le persone con competenze bassissime sono il 27,9%: nessuno fa peggio tra i Paesi osservati.

È il classico cane che si morde la coda, in quanto in primis lo Stato non fa la sua parte nell’istruire i cittadini: «La spesa totale per il sistema di istruzione in Italia, dal ciclo primario al terziario, ammonta nel 2014 al 7,1% della spesa totale delle Amministrazioni pubbliche per servizi, costituendo la più bassa percentuale tra i paesi dell’Ocse». Uno stallo che ci viene indicato anche da organismi internazionali: Un recente rapporto dell’Ocse (Oecd, 2017b) evidenzia come l’Italia sia intrappolata “in a low-skill equilibrium”, in un equilibrio centrato su un livello di bassa qualificazione, mentre sarebbe invece cruciale riuscire a mobilitare il potenziale di abilità e competenze del Paese».

Come osserva il Cnr, «la cultura, e la cultura scientifica, acquisite nei circa tredici anni del percorso scolastico completo, le capacità di metterle a frutto – soft skills – nonché le opportunità di apprendimento non-formale e informale nel corso della vita, contribuiscono in maniera determinante a definire le modalità in cui la società della conoscenza prende concretamente forma e partecipa a sostanziare e a supportare il sistema della ricerca e dell’innovazione». In altre parole lo Stato non risponde alle necessità di cultura e innovazione del Paese anche perché non arriva una forte richiesta in tal senso dalla cittadini, che dello Stato sono carne e sangue: per raggiungere l’obiettivo dobbiamo remare tutti dalla stessa parte e praticare il desiderio di cultura e conoscenza, non solo invocare interventi dall’alto.