Nature, tra gli enti di ricerca pubblici più innovativi al mondo ce ne sono due italiani

Nonostante il montare di atteggiamenti antiscientifici nella società e investimenti in R&S fermi all’1,3% del Pil, i ricercatori italiani si confermano tra i migliori e più efficienti al mondo

[26 Agosto 2019]

La ricerca italiana è abituata fare le nozze coi fichi secchi, un’ostinata caparbietà che non crolla – almeno per ora – neanche di fronte al montare di atteggiamenti antiscientifici portati sulla cresta dell’onda da populismo e sovranismo. Anzi: la prestigiosa rivista Nature ha appena inserito due realtà italiane nella top ten degli enti di ricerca pubblici più innovativi del mondo, ovvero l’Istituto nazionale di fisica nucleare (Infn) e il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr).

Stilata annualmente, la classifica Nature Index nella sua edizione 2019 è basata sul numero di articoli pubblicati in 82 riviste scientifiche, scelte e monitorate da Nature. Al primo posto tra le istituzioni governative mondiali si trova l’Accademia cinese delle scienze (Cas), seguita dal Centro Nazionale per la ricerca scientifica francese (Cnrs) e dagli Istituti nazionali per la salute (Nih) americani, mentre la Nasa occupa la settima posizione.

Dal canto suo l’Italia è prima in Europa, con ben due posizioni: rispetto all’anno scorso l’Infn scala una posizione, passando dal decimo al nono posto, mentre il Cnr fa il suo ingresso quest’anno scalzando un ente americano. «La classifica di Nature dimostra la grande qualità della ricerca italiana di frontiera, apprezzata e riconosciuta a livello internazionale», commenta Antonio Zoccoli, presidente dell’Infn in carica dall’inizio di luglio: tante le ricerche italiane menzionate da Nature, dallo studio dei buchi neri ai neutrini, dalle nuove tecnologie applicate all’ambiente.

Rimane il rammarico di poter solo immaginare cosa la ricerca italiana potrebbe fare se dotata di risorse adeguate per competere ad armi pari a livello internazionale: a partire dalla crisi economica del 2008 l’Italia – come documenta la stessa Nature – la già bassa spesa in R&S è crollata del 20% in termini reali (nel 2016 ammontava a 8,7 miliardi di euro), e altrettanto hanno fatto gli investimenti dedicati all’università (arrivati a 7 miliardi di euro), e i finanziamenti per gli enti di ricerca pubblici sono diminuiti del 9% rispetto a un decennio fa.

Come risultato finale la spesa totale destinata a ricerca e sviluppo è inchiodata a circa l’1,3% del Pil italiano, nettamente al di sotto della media Ue (2,03%) ed enormemente distante dagli obiettivi 2020 fissati dall’Ue stessa (in media nell’area Ue la spesa in R&S dovrà essere pari al 3% del Pil entro il 2020).