«Più hamburger le persone mangiano, più azoto finisce nell'oceano».

Cosa c’è nelle acque reflue che scarichiamo in mare?

Gli input e gli impatti globali sulla salute e gli ecosistemi costieri delle acque reflue umane

[17 Novembre 2021]

Quando si tratta di smaltimento delle acque reflue, la maggior parte delle persone tende a non chiedersi o a far finta di non sapere e non vedere che fine fanno e raramente pensiamo a cosa succede dopo aver tirato lo sciacquone o aver chiuso un rubinetto. Ma lo studio “Mapping global inputs and impacts from of human sewage in coastal ecosystems”, pubblicato su PLOS One da un team di ricercatori dell’università della California – Santa Barbara (UCSB) ha rivolto proprio la sua attenzione (e una notevole potenza di calcolo) proprio a questo argomento e agli impatti degli scarichi fognari sugli ecosistemi costieri globali e gli scienziati dicono che « I risultati non sono belli, ma sono illuminanti».

Il principale autore dello studio, il geografo Cascade Tuholske del National Center for Ecological Analysis and Synthesis delluCSB e che ora lavora all’Earth Institute della Columbia University,  spiega che «La motivazione alla base di questa ricerca era il desiderio di avere una comprensione approfondita dell’impatto delle acque reflue sulle acque costiere di tutto il mondo. Mentre la ricerca sulle minacce terrestri agli ecosistemi marini costieri si concentra spesso sul deflusso agricolo e su cosa succede quando fertilizzanti e rifiuti del bestiame finiscono nell’oceano, pochi studi indagano su cosa succede quando le acque reflue umane fanno lo stesso. Questo non è il primo studio a produrre un modello globale delle acque reflue, ma è il primo studio a mappare gli input di azoto e agenti patogeni dalle acque reflue in 130.000 bacini idrografici in tutto il pianeta. E questo è importante perché ci sono compromessi nello spazio per intervenire. Le informazioni provenienti da questo modello potrebbero rendere questi compromessi più chiari e le decisioni di gestione più facili da prendere».

In tutto il mondo, la maggior parte delle acque reflue umane da fognature, fosse settiche e fonti dirette viene scaricata in mare, con una varietà di sistemi di trattamento più o meno efficaci ma anche senza nessun trattamento e non sorprende che le principali fonti delle acque reflue umane siano anche luoghi con dense popolazioni umane, che tendono ad aggregarsi attorno ai principali bacini idrografici. Le principali fonti di azoto delle acque reflue includono lo spartiacque del fiume Yangtze in Cina, che ha contribuito all’11% del totale, il Nilo in Africa settentrionale, il Mississippi negli Usa, il Paraná in Argentina e il Danubio in Europa.

Tuholske  sottolinea: «Stimiamo che 25 bacini idrografici contribuiscano a circa il 46% degli input globali di azoto dalle acque reflue nell’oceano. A livello globale, quasi la metà dell’azoto proviene dalle acque reflue rispetto al deflusso agricolo, che è una frazione enorme». Secondo lo studio le coste di tutto il mondo sono interessate dall’aumento dell’azoto.

I contributi di azoto e patogeni non sempre erano correlati, Ad esempio, grandi quantità di agenti patogeni provenienti dalle acque reflue vengono scaricati lungo il fiume Brahmaputra, ma rispetto allo Yangtze l’apporto di azoto del Brahmaputra e molto inferiore al previsto. »Le differenze nelle pratiche di trattamento delle acque reflue esistenti nelle due regioni potrebbero in parte spiegare questo», dicono i ricercatori.

Tuholske e un team interdisciplinare dell’UCSB – Ben Halpern, Gordon Blasco, Juan Carlos Villasenor, Melanie Frazier e Kelly Caylor – hanno creato una visualizzazione dei dati che mappa globalmente le fonti e le destinazioni dell’azoto, un elemento comune nelle acque reflue agricole e umane che causa l’eutrofizzazione, un fenomeno in cui i nutrienti eccessivi creano fioriture di fitoplancton appena al largo che producono tossine e privano le acque di ossigeno. Queste “zone morte” non solo soffocano la vita marina, ma possono anche causare problemi nella catena alimentare, anche per l’uomo.

Uno degli autori dello studio Benjamin Halpern, della School of Environmental Science & Management e direttore del National Center for Ecological Analysis & Synthesis dell’UCSB, ricorda che «”Molti ecosistemi costieri, come le barriere coralline e le praterie di alghe, sono particolarmente sensibili ai nutrienti in eccesso, anche se non c’è una zona morta. Quando i livelli di nutrienti sono troppo alti, l’intero ecosistema può precipitare in uno stato altamente degradato. Le barriere coralline possono convertirsi in campi di alghe che crescono troppo e uccidono i coralli sottostanti. Questo nostro lavoro aiuta a mappare dove i nutrienti delle acque reflue mettono probabilmente questi ecosistemi a maggior rischio».

Per Tuholske, la cui ricerca si concentra sui sistemi alimentari, «Il modello mette in netto rilievo l’impatto delle diete moderne sugli ecosistemi costieri. Quel che è stato davvero sorprendente in tutta questa ricerca è il modo in cui le diete che passano alle proteine ​​di origine animale hanno un impatto sull’ecologia marina. Man mano che i Paesi diventano più ricchi e incorporano più carne nei loro sistemi alimentari, nelle acque reflue si presenta più azoto, oltre ai già alti livelli generati dall’agricoltura. Più hamburger le persone mangiano, più azoto finisce nell’oceano».

Ma l’eccesso di azoto non è l’unico problema per la crescente quantità di acque reflue umane scaricate nell’oceano; dove finiscono le acque reflue finiscono anche gli agenti patogeni. Ma i ricercatori fanno notare che «La rimozione di azoto o agenti patogeni può richiedere metodi molto diversi, il che può rendere difficile per i decisori con risorse limitate e priorità diverse valutare le loro opzioni tra il miglioramento della salute pubblica e la protezione degli ecosistemi costieri».

L’obiettivo delle stime su larga scala degli input di nutrienti e patogeni forniti dallo studio  è quello di fornire informazioni che possano portare a soluzioni locali che insieme possano affrontare un problema globale complesso.

Tuholske  conclude «Queste mappe top-down  ad alta risoluzione degli hotspot possono essere abbinate ad approcci bottom-up e possiamo trasferire la conoscenza in tutte le aree geografiche. L’adattamento e la mitigazione avvengono davvero dal basso verso l’alto e avere una mappa globale aiuta a individuare le priorità e condividere le conoscenze. Mentre mappiamo la portata di questo problema, possiamo fare qualcosa al riguardo. Possiamo proteggere sia la salute pubblica che gli ecosistemi costieri».