Altro che plastic free! Le multinazionali petrolifere costruiscono impianti per produrre molta più plastica

Di fronte alla prospettiva di una riduzione della domanda di carburanti, vogliono utilizzare l’etano, un sottoprodotto del fracking. Pesante impatto sul clima e l’ambiente

[24 Dicembre 2019]

Il 2019 è stato sicuramente l’anno in cui l’opinione pubblica globale ha preso coscienza dell’onnipresenza dell’inquinamento da plastica e in cui c’è stato il boom delle borse di tela, delle cannucce di metallo e delle borracce d’acqua riutilizzabili. Ma mentre la gente si preoccupa per le “isole“ e i vortici oceanici di plastica e microplastica, le industri dei combustibili fossili e petrolchimiche stanno reagendo contro le leggi che vogliono regolamentare e tassare l’utilizzo di plastiche monouso e stanno investendo miliardi di dollari in nuovi impianti destinati a produrre milioni di tonnellate di plastica in più rispetto ad oggi.
Come spiega su Yale Environment 360 Beth Gardiner, autrice di Choked: Life and Breath in the Age of Air Pollution, pubblicato dall’University of Chicago Press, gli analisti dicono che gigantesche multinazionali petroifere come ExxonMobil, Shell e Saudi Aramco «stanno aumentando la produzione di plastica – che è composta da petrolio e gas e dai loro sottoprodotti – per proteggersi dalla possibilità che una seria risposta globale ai cambiamenti climatici possa ridurre la domanda di carburanti». Secondo il rapporto ”The Future of Petrochemicals – Towards more sustainable plastics and fertilisers” dell’International energy agency (Iea) attualmente, i prodotti petrolchimici, che comprendono anche la plastica, rappresentano il 14% del consumo globale di petrolio ed entro il 2050 dovrebbero guidare metà della crescita della domanda petrolifera; il World economic forum prevede che nei prossimi 20 anni la produzione di plastica raddoppierà. Steven Feit, un avvocato del Center for International Environmental Law, conferma: «Nel contesto di un mondo che cerca di allontanarsi dai combustibili fossili come fonte di energia, è qui che [le compagnie petrolifere e del gas] vedono la crescita».
E con la plastica le compagnie Oil&Gas possono risolvere anche un altro problema: il boom del fracking statunitense sta portando in superficie, insieme al gas, grandi quantità di etano, una delle materie prime della plastica e gli Usa sono un’area di produzione di plastica in grande crescita. Con i prezzi del gas in calo, molti impianti di fracking sono in perdita , quindi le compagnie dei fossili vogliono e devono trovare ad ogni costo un utilizzo per l’etano che rappresenta un sottoprodotto del fracking e delle trivellazioni. «Stanno cercando un modo per monetizzarlo – spiega ancora Feit a Yale Environment 360 – Si può pensare alla plastica come una sorta di sussidio per il fracking».
Storicamente il centro della petrolchimica statunitense è la costa del Golfo del Messico tra il Texas e la Louisiana, con un’area lungo il corso inferiore del Mississippi così inquinata che viene addirittura chiamata “Cancer Alley”. E’ proprio qui che le compagnie fossili stanno estendendo le loro attività con una serie di nuovi progetti e nuove proposte. Secondo la Gardiner «Stanno anche cercando di creare un new plastics corridor in Ohio, Pennsylvania e West Virginia, dove i pozzi di fracking sono ricchi di etano».
A Monaca, in Pennsylvania, a 25 miglia a nord-ovest di Pittsburgh, la Shell ha investito 6 miliardi di dollari per costruire un impianto di cracking che trasforma l’etano in etilene, un componente fondamentale per molti tipi di plastica, che, dopo la sua apertura nei primi mesi del 2020, produrrà 1,6 milioni di tonnellate di plastica all’anno. Si tratta solo del più grosso degli impianti che dovrebbero dare il via a quello che l’industria petrolchimica ha definito il «rinascimento nella produzione di materie plastiche degli Stati Uniti» e che comprende non solo il packaging e la plastica monouso, ma anche prodotti più durevoli come parti per auto e aerei. L’American Chemistry Council conferma questo boom di cui nessuno parla: dal 2010, solo negli Usa le compagnie petrolchimiche hanno investito oltre 200 miliardi di dollari in 333 progetti per produrre plastica e altri prodotti chimici, compreso l’ampliamento di impianti esistenti, nuovi impianti e infrastrutture come condutture. Mentre alcuni di questi progetti sono già in attività o in costruzione, altri attendono l’approvazione definitiva.
Di fronte a questa espansione della plastica guidata dalle Big Oil, Judith Enck, fondatrice di Beyond Plastics ed ex direttrice regionale dell’Environmental Protection Agency Usa, sottolinea: «Ecco perché il 2020 è così cruciale. Ci sono molte di questi impianti che sono nel processo di autorizzazione. Siamo quasi vicini al fatto che tutto sia troppo tardi. Anche se verranno costruiti solo un quarto di questi impianti di cracking dell’etano. Questo ci bloccherà in un futuro di plastica da cui sarà difficile uscire»
E l’impatto va oltre il problema dei rifiuti che è al centro delle preoccupazioni dell’opinione pubblica. Come spiega ancora la Gardiner, «Sebbene la plastica sia spesso vista come una questione separata dal cambiamento climatico, sia la sua produzione che l’afterlife sono in realtà le principali fonti di emissioni di gas serra».
Il Center for International Environmental Law evidenzia che «Le emissioni globali legate alla plastica – oggi poco meno di 900 milioni di tonnellate di biossido di carbonio equivalenti all’anno – entro il 2030 potrebbero raggiungere 1,3 miliardi di tonnellate, quanto fino a quasi 300 centrali elettriche a carbon,. Se la produzione crescerà come previsto, la plastica consumerebbe tra il 10 e il 13% delle emissioni di carbonio consentite se il riscaldamento dovesse rimanere al di sotto di 1,5 gradi Celsius». Queste emissioni provengono da quasi ogni fase della vita della plastica, a cominciare dall’alta intensità energetica dell’estrazione di petrolio e gas, poi c’è il cracking dell’etano che richiede enormi quantità di energia, con un a grande impronta di gas serra concomitantemente. IL nuovo mega-impianto della Shell che sta per entrare in funzione ha una licenza che gli consente di emettere ogni anno più CO2 di 480.000 auto. E intanto la multinazionale fa costoso greenwashing con appelli alla sostenibilità su televisioni e giornali o annuncia programmi green.
Inoltre, si stima che nel mondo il 12% della plastica venga incenerito – molto spesso in impianti non adatti, quando non direttamente nelle discariche dei Paesi in via di sviluppo, rilasciando più gas serra e tossine pericolose, tra cui diossine e metalli pesanti. L’industria sta promuovendo un’espansione dell’incenerimento negli impianti di termovalorizzazione, che definisce una fonte di energia rinnovabile. Il recente studio “Production of methane and ethylene from plastic in the environment”, pubblicato su Plos One da un team della School of Ocean and Earth Science & Technology dell’università delle Hawaii – Manoa, evidenzia che la plastica che si degrada nell’ambiente rilascia gas serra, rappresentando una grossa e potenzialmente incontrollabile fonte di emissioni.
L’industria petrolchimica – appoggiata come in Italia da molti politici che magari sono paladini anche delle campagne plastic free – sostiene che la plastica offre molti vantaggi, compresi quelli ambientali. Per Keith Christman, direttore esecutivo plastic markets dell’American Chemistry Council, «Rende le auto più leggere e quindi più energeticamente efficienti, isola le case, riduce gli sprechi prolungando la vita del cibo e garantisce l’igiene dei dispositivi medico-sanitari. Queste cose continueranno ad essere in futuro importanti applicazioni che proteggono la nostra salute e la società. Qui, la chiave qui è il contesto. Se non userete la plastica, cosa userete invece? Alternative come l’acciaio, il vetro e l’alluminio hanno i loro effetti negativi, tra cui impronte di carbonio che possono essere maggiori di quelle di plastica. E mentre i critici si concentrano sugli articoli usa e getta che sembrano frivoli, molta plastica viene utilizzata per un uso più duraturo».
Ma nei Paesi ricchi è la praticità, come la possibilità per i consumatori di mangiare e bere in viaggio, il fattore determinante dell’(ab)uso di plastica, mentre i Paesi in via di sviluppo sono diventati un nuovo importante mercato. In alcune zone dell’’Asia, le multinazionali che da noi fanno le virtuose vendono miliardi di “monoporzioni” di prodotti come shampoo, sapone e lozioni ai consumatori a basso reddito che non possono permettersi le confezioni più grandi. E, mentre l’industria petrolchimica nei Paesi sviluppati indica – giustamente – la mancanza di impianti per il recupero, il riciclo e il riuso dei rifiuti, nei Paesi poveri esporta plastica e rifiuti senza curarsi di quel che avviene dopo… e poi noi postiamo indignati e affranti sui social network le onde di plastica nel mare del Brasile, le ciminiere che sputano colonne di fimo tossico dai primitivi inceneritori indonesiani, le spiagge sommerse dalla plastica in India o le isole di plastica nei Caraibi o alle Maldive. Il problema è che statunitensi, europei e australiani utilizzano decine di volte più plastica procapite degli indiani, 5 volte più degli indonesiani e quasi 3 volte più dei cinesi.
su Yale Environment 360 la Gardiner ricorda che «Oltre agli impatti climatici, la produzione petrolchimica può rilasciare tossine trasportate dall’aria come 1,3-butadiene, benzene e toluene, causando il cancro e altre malattie. Molti impianti si trovano in aree povere, spesso in comunità di colore, anche se, dato che la fracking connection punta all’espansione nelle aree rurali, anche le comunità bianche povere saranno probabilmente sempre più colpite».
Incendi ed esplosioni sono un altro problema. Il giorno prima del Ringraziamento, una fiammata in un impianto della Texas Petroleum Chemical a Port Neches ha provocato due esplosioni, costringendo 50.000 persone a evacuare le loro case. Una settimana dopo, le autorità hanno emesso un’altra ordinanza di evacuazione dopo che i monitor dell’aria hanno rilevato alti livelli di 1,3 butadiene cancerogeno. SI è trattato del quarto grande incendio petrolchimico in Texas nel 2019 e Yvette Arellano, del Texas Environmental Justice Advocacy Services, ha commentato: «Questa è la natura in cui viviamo e lo sfortunato effetto collaterale di tutta questa produzione. Penso che il grande pubblico non comprenda bene l’ampiezza degli impatti della plastica, specialmente per quanto riguarda la salute umana».
Ma le multinazionali puntano a realizzare i loro nuovi impianti dove sono accolti bene, in particolare nelle aree colpite dalla crisi del carbone e di altre industrie pesante. La Pennsylvania ha alla Shell uno sgravio fiscale per 1,6 miliardi di dollari – uno dei più grandi nella storia dello Stato – e in Ohio e Weat Virginia le imprese che vogliono costruire più impianti di cracker di etano, di stoccaggio e condutture sono favorite. Secondo IHS Markit, una data and analysis company, «La regione potrebbe produrre abbastanza etano da poter rifornire altri quattro impianti di cracking come quello della Shell».
Per questo l’industria petrolifera è così preoccupata per il diffondersi di leggi che puntano a ridurre la proliferazione della plastica, a partire dalla direttiva europea contro la plastica monouso, o le iniziative di 8 Stati Usa che hanno messo al bando i sacchetti di plastica, srrivando dopo 34 Paesi africani e molto dopo Paesi asiatici come il Bangladesh.
Ma Peter Levi, principale autore del rapporto “The Future of Petrochemicals” pubblicato nel 2018 dall’Ieam, fa notare che «Nonostante questi sforzi, la domanda di plastica continua a crescere molto rapidamente, sia nei paesi in via di sviluppo sia in quelli più ricchi. Gli analisti prevedono una crescita della domanda annuale del 4%. Le aggiunte di produttività non sono lì senza motivo. Grazie al basso costo e alla versatilità della plastica, dal 2000 la produzione annuale è già raddoppiata. E’ un po’ come un materiale da sogno. Se pensi a quanta roba puoi mettere in un sacchetto di plastica rispetto a quanto pesa, è notevole. Questo significa che i sostituti devono competere a quel livello»
Tuttavia, nel caso della plastica, la domanda non viene sempre direttamente dai consumatori, ma dalle imprese del settore alimentare, delle bevande, dei prodotti di consumo e di altre industrie che la usano per imballare i loro beni.
Di fronte all’offensiva plastic free, l’American Chemistry Council mira a riciclare o recuperare tutta la plastica entro il 2040, anche se gli ambientalisti dicono che si tratta di greenwash irrealistico. L’Ue, oltre al divieto di articoli monouso, richiederà anche che le bottiglie di plastica contengano il 25% di contenuto riciclato e che le imprese che vendono acqua in bottiglia e bevande si facciano carico del recupero di almeno il 90% di questi imballaggi. Ma il recente rapporto “Plastics sustainability: Risks and strategy implications” di IHS Markit afferma che «Le capacità tecniche, la logistica e l’economia del riciclaggio sono inadeguate a tali ambizioni. Il riciclo della plastica è tecnicamente difficile, e la chiusura delle porte da parte della Cina ai rifiuti di plastica stranieri nel 2018 ha messo a nudo l’inadeguatezza dei sistemi di riciclaggio globali, lasciando molte nazioni ricche con montagne di rifiuti». Robin Waters, direttore analisi delle materie plastiche di IHS Markit e uno degli autori del rapporto, aggiunge che «E’ improbabile che il materiale riciclato contribuisca oltre il 10-12% alla futura produzione di plastica. E i tipi di articoli coperti da divieti come quello europeo rappresentano circa il 5% della domanda di plastica».
Gli ambientalisti statunitensi temono che l’espansione dell’offerta porterà probabilmente un ulteriore utilizzo della plastica, indipendentemente dal fatto che i consumatori lo vogliano o meno.
Feit conclude: «Una volta costruiti nuovi impianti di cracking dell’etano, i produttori vorranno mantenerli in funzione per massimizzare le entrate. Quindi la prossima preoccupazione è che ci sarà un’innovazione nei modi di immettere la plastica sul mercato. Questo è ciò che abbiamo visto [in passato]: sempre più cose che vengono confezionate in sempre più plastica. C’è un grosso problema. A meno che la produzione non rallenti, troveranno solo qualcos’altro da avvolgere nella plastica».