Moda sporca: i marchi dell’abbigliamento devono assumersi la responsabilità dei loro impatti

Sondaggio: pochi italiani associano i brand della moda a una filiera sostenibile

[11 Gennaio 2019]

I consumatori italiani stanno diventando sempre più consapevoli dell’impatto ambientale e sociale sia dell’industria alimentare che di quella dell’abbigliamento, un settore quest’ultimo che nel 2020 arriverà a un valore di mercato di 42 miliardi di dollari. Mentre i  Bangladesh continuano gli scioperi e le manifestazioni (duramente repressi) delle operaie e degli operai tessili per chiedere un salario e condizioni di lavoro dignitose, secondo il  sondaggio “Sustainable Fashion Survey”  effettuato da Isos Mori per conto di Changing Markets Foundation e Clean Clothes Campaign/Campagna abiti puliti,  «I grandi brand non possono più contare su una fiducia indiscussa ma devono mettere in conto, da parte di chi compra, un occhio sempre più vigile e attento sugli aspetti che riguardano l’ambiente, la salute e le condizioni dei lavoratori».

Il sondaggio è stato effettuato online in Italia, Gran Bretagna, Usa, Francia, Germania, Polonia e Spagna e Ipsos Mori sottolinea che «I confronti tra i vari paesi vengono fatti solo se statisticamente significativi.  Trattandosi di un’indagine on line, e quindi con campione auto-selezionato, i margini di errore sono più alti. Tecnicamente la significatività e gli intervalli di confidenza si applicano solo a campioni randomizzati; tuttavia, i campionamenti causali di buona qualità si sono rivelati altrettanto accurati nella pratica».

Il questionario verteva sui seguenti argomenti: Domande sulle abitudini di acquisto di articoli di abbigliamento e sulle scelte fatte in merito alla sostenibilità; Percezione delle questioni della sostenibilità nell’ambito dell’industria della moda e la filiera dei marchi dell’abbigliamento; Opinioni sui diritti dei lavoratori e sui salari pagati nel settore della produzione di articoli di abbigliamento; Opinioni specifiche sull’uso della viscosa nei processi produttivi dei capi di abbigliamento; Opinioni sui sistemi di certificazione dei capi di abbigliamento attuali e alternativi.

Il sondaggio evidenzia che «solo due Italiani su dieci (22%) ritengono che l’industria informi adeguatamente i consumatori riguardo all’impatto produttivo sull’ambiente e sulla popolazione e otto su dieci (82%) ritengono che i marchi  debbano fornire informazioni sugli obblighi assunti e le misure adottate per ridurre l’inquinamento». Inoltre, due Italiani su tre (64%) dichiarano di non essere disposti a comprare articoli di abbigliamento da marchi la cui produzione è associata all’inquinamento e addirittura il 72% (i tre quarti degli Italiani) pensa che «i marchi di abbigliamento debbano assumersi la responsabilità di ciò che avviene nelle loro catene di produzione e distribuzione e debbano garantire che i loro articoli siano prodotti in maniera ecosostenibile».

Per quanto riguarda le condizioni di lavoro e di salario ben il 78% degli italiani considera importante che «i marchi dell’abbigliamento dichiarino in maniera trasparente se i dipendenti che lavorano nelle proprie filiere ricevono un salario dignitoso» e il 58% dice che «non comprerebbe prodotti da un marchio che non paga i giusti compensi».

Urska Trunk, della Changing Markets Foundation, evidenzia che «Si tratta dell’indagine di mercato più approfondita mai realizzata relativa alla percezione da parte dei consumatori degli standard ambientali e lavorativi nell’industria dell’abbigliamento. L’indagine rivela che i consumatori si aspettano che i marchi si assumano la responsabilità di ciò che avviene all’interno delle proprie filiere e chiedono maggiore trasparenza sia per quanto riguarda le condizioni di lavoro sia per il rispetto dell’ambiente. I risultati dell’indagine puntano tutti verso un netto cambiamento di mentalità da parte dei consumatori i quali chiedono una maggiore assunzione di responsabilità da parte dell’industria e più informazioni».

Sono sempre più numerosi gli appelli rivolti all’industria della moda italiana perché adotti processi produttivi più responsabili. Clean Clothes Campaign denuncia che nonostante l’alto valore di mercato del settore, le sue »rivelazioni sulle misere condizioni di lavoro nelle fabbriche in Albania e Macedonia, dove vengono prodotte le calzature cosiddette “Made in Italy” per i marchi di lusso, e i risultati non soddisfacenti delle analisi di “internal auditing” relative alle condizioni di lavoro, hanno causato un danno di immagine e hanno condotto l’opinione pubblica a fare pressione affinché questa situazione cambi».

Generalmente, i marchi del lusso elencati nel sondaggio non sono considerati migliori dei marchi più economici o dei rivenditori al dettaglio. Il sondaggio ha infatti messo in luce alcuni dati sorprendenti riguardanti i brand del lusso: «Il 10% degli Italiani associa il marchio Gucci a una filiera ecosostenibile, contro il 13% di Zara e il 17% di H&M. Ricerche condotte dalla Clean Clothes Campaign tra l’altro rivelano come Gucci si rifornisca in diversi Paesi dove sussistono misere condizioni di lavoro, come la Serbia».

Secondo il sondaggio di Ipsos Mori, il 54% degli italiani ha la sensazione che l’industria della moda paghi salari troppo bassi ai lavoratori delle proprie filiere e il 67% ritiene che sia difficile sapere con certezza se gli articoli di abbigliamento che acquistano rispettano gli standard etici più alti.

Deborah Lucchetti della Campagna Abiti Puliti evidenzia che «I consumatori non sono più disposti a comprare prodotti di quei marchi che non pagano salari dignitosi. Se l’industria dell’abbigliamento non si decide ad agire concretamente, convertendo la produzione verso una maggiore sostenibilità e legalità, è giunta l’ora che lo facciano direttamente i governi».

Insomma, varcati i confini di casa nostra gli italiani sembrano meno razzisti e poverofobici di quanto appaiono in patria quando si parla dei migranti “economici” che fuggono proprio da quelle condizioni che, nel sondaggio,  la stragrande maggioranza ritiene intollerabili.

Poi c’è il problema della viscosa, una fibra vegetale che sta diventando un’alternativa sempre più diffusa al cotone o ai prodotti sintetici.  Ma Clean Clothes Campaign  fa notare che «La produzione della viscosa necessita di sostanze chimiche tossiche che hanno effetti nocivi documentati sull’ambiente e sulla salute delle persone se non debitamente controllate». Più di 303.000 consumatori dell’UE hanno firmato una petizione lanciata da WeMove per chiedere all’industria dell’abbigliamento di impegnarsi nella produzione di viscosa pulita.

Secondo il rapporto “Dirty Fashion: on track for transformation della Changing Market Foundation” i  brand del lusso italiani quali Gucci, Prada e Fendi risultano tra i marchi peggiori per quanto riguarda la viscosa, accanto a rivenditori al dettaglio della fascia più bassa come Lidl ed Asda.

L’indagine Ipsos Mori ha anche rivelato che «Il 71% degli Italiani concorda sul fatto che i marchi dell’abbigliamento dovrebbero fornire informazioni sui loro produttori di viscosa e il loro impatto sull’ambiente».

La Trunk conclude: «Questa indagine indica un forte sostegno da parte dei consumatori alle azioni intraprese dall’industria della moda per garantire che i marchi producano articoli di abbigliamento in maniera ecosostenibile. Le aziende del settore dovranno passare a metodi più “puliti” per soddisfare le aspettative dei consumatori.  Ci stiamo rivolgendo alle aziende italiane che si occupano di abbigliamento chiedendo di seguire l’esempio di altri marchi Ue e firmare la nostra Roadmap per una filiera della viscosa più pulita. Abbiamo bisogno della massima trasparenza e di uno spostamento verso un modello produttivo che non distrugga la vita delle persone e gli ecosistemi naturali».