Greenpeace: troppo greenwashing nel settore moda
Dietro le etichette green di grandi marchi l’insostenibilità ambientale e sociale del fast fashion
[27 Aprile 2023]
Il rapporto “Greenwash danger zone. 10 years after Rana Plaza fashion labels conceal a broken system” pubblicato da Greenpeace Deutschland denuncia che «Le aziende del fast fashion promuovono la loro presunta sostenibilità e il rispetto di migliori condizioni di lavoro dichiarando nelle etichette che i loro capi d’abbigliamento sono prodotti in modo sostenibile. Spesso si tratta però solo di greenwashing».
Il rapporto, pubblicato in occasione del decimo anniversario del disastro di Rana Plaza in Bangladesh, in cui persero la vita più di mille persone, svela cosa si cela dietro la moda a basso costo. Giuseppe Ungherese, responsabile della campagna inquinamento di Greenpeace Italia, evidenzia che «Dieci anni dopo la tragedia di Rana Plaza, l’industria della moda continua a sfruttare i lavoratori e a generare enormi impatti ambientali. Oggi proliferano sul mercato vestiti che le stesse aziende del fast fashion etichettano come eco, green, sostenibili, giusti, ma il più delle volte è solo greenwashing. Si pubblicizza una sostenibilità inesistente mentre in realtà sono in costante aumento gli abiti fatti di plastica usa e getta derivante dal petrolio, non riciclabili e per lo più prodotti in condizioni di lavoro inaccettabili.
Controllando la veridicità delle informazioni riportate nelle etichette dei capi d’abbigliamento, il rapporto di Greenpeace Dutschland ha svelato quel che si nasconde dietro la presunta sostenibilità di alcune etichette di noti marchi internazionali. L’indagine ha controllato le iniziative di 29 aziende come H&M, Zara, Benetton, Mango… che aderiscono alla campagna Detox – lanciata nel 2011 proprio da Greenpeace per azzerare le emissioni di sostanze chimiche pericolose nelle filiere tessili, e quelle di marchi internazionali come Decathlon e Calzedonia/Intimissimi. Greenpeace fa notare che «Solo le iniziative di COOP “Naturaline” e Vaude “Green Shape” hanno ottenuto buoni risultati, al contrario di quelle di tutte le altre aziende esaminate. I marchi si vendono quindi per quello che non sono, ed evitano di pubblicare informazioni che permettano di valutare l’effettivo impatto ambientale. Ciò genera confusione nelle persone, spinte a credere di acquistare prodotti sostenibili ma che in realtà non lo sono».
Greenpeacde evidenzia che «Benetton e Calzedonia/Intimissimi, i marchi italiani presi in esame nell’indagine, non ottengono buoni risultati. Il primo deve fornire molte più informazioni per riuscire realmente a “produrre meno e meglio”, oltre a dover rivedere la propria definizione di “cotone sostenibile”. Calzedonia invece deve passare dalle parole ai fatti rendendo veritiere le dichiarazioni sulla tracciabilità delle filiere e adottare un sistema che permetta di gestire le sostanze chimiche pericolose».
Ungherese conclude: «Il fast fashion non può essere definito sostenibile. Le aziende hanno il dovere di allontanarsi da modelli di business basati su un’economia lineare e promuovere una vera economia circolare che riduca gli impatti sociali e ambientali. Allungare il ciclo di vita dei vestiti deve essere la priorità del settore, solo così eviteremo una moda basata sul greenwashing».