L’Etiopia al collasso paga l’avventurismo guerrafondaio del Premio Nobel per la Pace
L’alleanza armata tra tigrini e oromo a 200 Km da Addis Abeba e Abiy Ahmed va al fronte
[25 Novembre 2021]
Quando prese il potere nel 2018, il primo ministro dell’Etiopia, Abiy Ahmed, suscitò un’immensa speranza popolare e l’ammirazione internazionale per aver raggiunto rapidamente un accordo di pace con l’Eritrea, mettendo fine a una guerriglia e poi a una guerra di confine che duravano da decenni. In molti, compresa la comunità internazionale che conferì al premier etiope il Premio Nobel per la pace, pensavano che finalmente l’Etiopia avesse trovato l’uomo in grado di mettere d’accordo le 80 nazioni, nazionalità e popoli del grande Paese africano che fu anche colonia italiana e fascista-
Come spiega su Jeune Afrique René Lefort, ricercatore indipendente specializzato in Corno d’Africa, «La vecchia risposta, incarnata dall’ultimo “re dei re”, Haile Selassie, era dura. Pugno di ferro al servizio di un iper accentramento autoritario; la negazione di ogni diversità, le componenti etniche etiopi erano chiamate a negare la loro identità per cercare di integrarsi con il gruppo dominante: gli Amhara». Dopo la sua caduta dell’imperatore nel 1974, e dopo la sanguinosa parentesi della dittatura comunista/militare del Derg, furono i gruppi di guerriglia guidati dall’élite “marxista-leninista” tigrina a prendere il potere con la forza nel 1991 e a costruire una federazione etiope basata sulla divisione etnica, con Regioni/Stato dotate di una fortissima autonomia. Ma alla fine il Tigray People’s Liberation Front (TPLF) impose la sua egemonia politica e militare, trasformando il federalismo etnico è una farsa.
Il problema è che i Tigrini rappresentano solo il 6% della popolazione, gli Amhara il 25% e gli Oromo un buon terzo. Quando nel 2012 morì improvvisamente l’onnipotente primo ministro tigrino Meles Zenawi, la piramide del potere etiope crollò perché, come dice Lefort, «Poggiava sulle spalle di un uomo». E in questo vuoto di potere e con il TPFL in confusione, il rancore anti-tigrino accumulato in quasi 30 anni dagli oromo e dagli amhara portano a una rivolta popolare, con i giovani di Addis Abeba che scesero in piazza al grido di «Abbasso i Woyanes», come viene chiamate l’élite del Tigray.
Un’élite che però non ha dimenticato la sua lunga storia di lotta e guerra e che ha l’intelligenza di capire che il suo turno è finito e si ritira nella sua roccaforte del Tigray avviando una serie di riforme: diritti umani, ritorno all’appoggio ai movimenti di opposizione armata eritrei (in gran parte formati da tigrini), liberalizzazione dell’economia. Un esempio seguito dagli altri partiti etnici che fa entrare l’Etiopia sta entrando in quella che è stata definita la sua “transizione democratica” e il suo simbolo è l’elezione di un giovane leader Oromo, fino ad allora quasi sconosciuto, Abiy Ahmed. Un’elezione, ricorda Lefort che «Suscita immensa speranza popolare, anche tra i Tigrini».
Ma solo3 anni dopo, l’Etiopia è in ginocchio, il TPFL, dopo aver sconfitto le truppe etiopi e quelle etniche amhara e Oromo è ormai a 200 Km da Addis Abeba, Abiy è partito per il fronte e ha chiesto al suo popolo di fare altrettanto.
Ma quello che il Premio Nobel per la Pace ha in mano grazie al suo avventurismo guerrafondaio è un Paese atomizzato, diviso in interessi etnici, tribali e locali e che ha visto uno dei migliori eserciti dell’Africa sconfitto due volte, a giugno e ottobre, dai guerriglieri tigrini. Come riassume efficacemente Lefort: «Aveva ereditato un paese sovrano. Si aggrappa disperatamente a Issayas Afeworki. Poiché anche il despota eritreo considera il TPFL il suo peggior nemico, il suo esercito si unisce a quello di Abiy. I suoi servizi di sicurezza sono onnipresenti, fino ai controlli all’aeroporto di Addis Abeba. L’Etiopia era il pilastro della stabilità nel Corno d’Africa. È diventata la sua principale fonte di instabilità».
Mentre sui campi di battagli vengono decimati decine di migliaia di combattenti e il bilancio delle vittime civili è enorme, i guerriglieri dell’ Oromo Liberation Army (OLA) occupano sempre più territori e in Tigray, 5 milioni di persone (su 6 milioni in totale) hanno bisogno di aiuti di emergenza, 400.000 persone sono sull’orlo della carestia. Il blocco imposto da Addis Abeba lascia passare solo il 15% circa degli aiuti necessari. Per il segretario di Stato Usa Antony Blinken, «Le atrocità commesse nel Tigray potrebbero equivalere a un genocidio».
Lefort non ha dubbi: «Abiy Ahmed ha una responsabilità schiacciante in questa corsa al disastro. La sua popolarità iniziale unita all’ondata di democratizzazione gli ha conferito una missione storica: riunire per la prima volta i rappresentanti di tutte le nazioni, nazionalità e popoli affinché possano concordare liberamente un futuro comune. Era necessario l’ecumenismo, Abiy Ahmed ha esacerbato le divisioni. Molto rapidamente, ha reso i tigrini responsabili di tutti i mali del Paese, presenti e passati. Queste accuse hanno colpito nel segno. La tensione con il TPFL è salita», fino a che il 4 novembre 2020 Abiy non ha scatenato la guerra contro il Tigray prendendo come scusa elezioni regionali non autorizzate. Una guerra con la quale le truppe federali etiopi, assistite dalle milizie Amhara soprattutto dall’esercito eritreo sono entrate nel Tigray per una “operazione di ristabilimento dell’ordine” che dovedva concludersi in pochi giorni e che si è trasformata in un massacro, con bombardamente, esecuzioni di massa di civili tigrini e profughi eritrei, violenze e stupri e centinaia di migliaia di profughi, che dura ancora.
Ora si scopre che l’uomo al quale è stato dato il Premio Nobel per la Pace si crede una specie di messia: sua madre aveva predetto che sarebbe diventato il settimo re d’Etiopia, e che ha un’insaziabile sete di potere. Lefort dice che «Abiy si considera l’erede delle grandi figure imperiali che faranno dell’Etiopia una mitica “grandezza passata”. Ha volontariamente e violentemente ignorato e soppresso le aspirazioni di una larga parte degli etiopi, di cui il TPFL è diventato il campione: un “vero” federalismo etnico.La sua visione è arcaica». E neanche la forza riuscirebbe a fargli cambiare idea.
La prova e che la coalizione tra TPFL e oromo dell’OLA (la stessa etnia di Abiy) si sta avvicinando sempre di più ad Addis Abeba, e potrebbe presto strangolare la capitale e addirittura conquistarla. La sopravvivenza del regime è appesa a un filo e probabilmente al sacrificio di migliaia di vite umane, di nazionalisti etiopi che seguiranno Abiy Ahmed al fronte, diventato da costruttore di pace capo del suo esercito, mentre i Paesi occidentali sembrano non credere più in lui e chiedono ai loro cittadini di partire subito dall’Etiopia per non dover rivivere l’incubo di Kabul.
Nonostante questo percorso disastroso, i paesi vicini e le grandi potenze occidentali – a partire dall’ex potenza coloniale italiana – sono stati ostinatamente ciechi di fronte a questi abusi, un po’ perché sedotti dal Pren mio Nobel per la Pace, ma soprattutto per quella che Lefort chiama «Una sorta di ossessione testuale: qualsiasi cambio di regime doveva essere costituzionale. Hanno postulato che Abiy deve essere al centro di una soluzione negoziata, cosa che non ha mai voluto e la sua presa di potere sta facendo sprofondare l’Etiopia».
Olusegun Obasanjo per l’Unione africana e Blinken stanno cercando una soluzione diplomatica, ma forse è troppo tardi. La coalizione armata tra milizie tigrine e oromo è sicura della sua superiorità militare, mentre Abiy Ahmed crede in un miracoloso rovesciamento della situazione grazie all’effetto massa a seguito di una mobilitazione generale.
«Ma – conclude Lefort – l’ostacolo rappresentato dal premier etiope è finalmente evidente. Blinken per primo ha attribuito ad Abiy la responsabilità primaria della continuazione delle ostilità. Personalità all’interno e all’esterno del regime stanno lavorando insieme per farlo uscire di scena in un modo o nell’altro e lanciare così quel famoso “dialogo nazionale inclusivo”. Un loro successo porterebbe l’unico piccolo raggio di speranza».