La risposta alla sfida cinese è il socialismo democratico, partecipativo, ecologico e postcoloniale

Piketty: il neoliberismo in realtà ha solo rafforzato il modello cinese

[13 Luglio 2021]

Il Partito comunista cinese (Pcc) sta celebrando in pompa magna il suo centesimo anniversario e i discorsi ufficiali sono un misto di ideologia, nazionalismo ed esaltazione della crescita economica e della guida del Pcc che l’ha consentita, trasformando il maoismo in un capialismo gestito da una struttura che è rimasta leninista e che, in cambio dell’obbedienza delle masse, concede un benessere economico e consumistico  che i cinesi non avevano mai sperimentato. Di fronte a questo regime dittatoriale che gode di un forte consenso popolare interno che ormai g ha poco e nulla a che fare con il marxismo-leninismo e che è diventato una grande potenza mondiale, i paesi occidentali stanno ancora cercando di definire il loro atteggiamento nei confronti di Pechino. Ma le risposte di fronte al nuovamente monolitico Pcc di Xi Jinping le risposte sono molteplici e vanno dalla complicità all’ostilità, ma semb pre nella consapoevolezza che uno scontro con la Cina sarebbe economicamente catastrofico e potrebbe portarre a una guerra planetaria che rischierebbe di cancellare la vita sul pianeta.

Il tema del rapporto tra Occidente e Cina è affrontato oggi sul suo blog su Le Monde da Thomas Piketty, l’autore di “Capital au 21e siècle” e “Capital et idéologie”, direttore di studi all’Ecole des Hautes Etudes en Sciences Sociales, professore all’Ecole d’économie de Paris e co-direttore del World Inequality Lab/World Inequality Database.

Piketty non è certo uno al quale possano essere attribuite simpatie per il neoliberismo che continua ancora  a dominare nei Paesi “liberi” e infatti scrive: «Lo dico subito: la risposta giusta sta nel porre fine all’arroganza occidentale e promuovere un nuovo orizzonte emancipatore ed egualitario su scala globale, una nuova forma di socialismo democratico e partecipativo, ecologico e postcoloniale. Se si attengono alla loro solita postura da insegnante e a un modello iper-capitalista datato, i Paesi occidentali potrebbero trovare estremamente difficile affrontare la sfida cinese».

Piketty  sottolinea che, anche se è autoritario e oppressivo, il regime cinese ha sicuramente molti punti deboli. Secondo il Global Times, quotidiano ufficiale cinese per l’estero, «La democrazia in stile cinese è superiore al supermercato elettorale in stile occidentale, perché affida i destini del Paese a un’avanguardia motivata e determinata, selezionata e rappresentativa della società (il PCC ha 90 milioni di membri, il 10% della popolazione), e in definitiva più profondamente coinvolto nel servizio dell’interesse generale rispetto all’elettore occidentale medio, versatile e impressionabile. In pratica, però, il regime sta diventando sempre più simile a una perfetta dittatura digitale, così perfetta che nessuno vuole assomigliarci. Il modello di deliberazione all’interno del partito è tanto meno convincente perché non lascia traccia all’esterno, mentre al contrario tutti vedono sempre più chiaramente l’instaurazione di una sorveglianza diffusa sui social network, la repressione dei dissidenti e delle minoranze, l’abbrutimento dei processo elettorale a Hong Kong, minacce alla democrazia elettorale a Taiwan. La capacità di un tale regime di appellarsi alle opinioni di altri Paesi (e non solo dei loro leader) sembra limitata. Dobbiamo aggiungere il forte aumento delle disuguaglianze, l’accelerazione dell’invecchiamento, l’estrema opacità che caratterizza la distribuzione della ricchezza».

Nonostante queste debolezze, il regime cinese ha forti risorse. Piketty  evidenzia che «Quando si verificheranno disastri climatici, non avrà difficoltà a stigmatizzare le responsabilità delle ex potenze, che nonostante la loro popolazione limitata (circa il 15% della popolazione mondiale per Stati Uniti, Canada, Europa, Russia, Giappone presi insieme), rappresentano quasi l’80% delle emissioni cumulative di carbonio dall’inizio dell’era industriale. Più in generale, la Cina non esita a ricordare che si è industrializzata senza ricorrere alla schiavitù e al colonialismo, di cui essa stessa ha fatto le spese. Questo le permette di guadagnare punti di fronte a quella che viene percepita in tutto il mondo come l’eterna arroganza dei Paesi occidentali, sempre pronti a dare lezioni al mondo intero in termini di giustizia e democrazia, pur dimostrandosi incapaci di affrontare le disuguaglianze e le discriminazioni che li minano e facendo un patto con tutti i potentati e gli oligarchi che ne beneficiano»,

Inoltre, sul piano economico e finanziario, lo Stato cinese dispone di un patrimonio considerevole, molto superiore ai suoi debiti, « Il che  – sottolinea l’autore di Capital au 21e siècle – gli fornisce i mezzi per una politica ambiziosa, sia a livello nazionale che internazionale, soprattutto per quanto riguarda gli investimenti nelle infrastrutture e nella transizione energetica».

E a chi crede che l’economia cinese sia completamente statalizzata Piketty  fa notare che «Le autorità pubbliche detengono attualmente il 30% di tutto ciò che c’è da possedere in Cina (10% degli immobili, 50% delle aziende), che corrisponde a una struttura di economia mista per molti versi paragonabile a quella riscontrata in Occidente nel periodo di prosperità 1950-1980 (conosciuti in Francia come i “trente glorieuses’). Colpisce invece la misura in cui i principali Stati occidentali si trovano tutti nei primi anni 2020 con posizioni patrimoniali quasi nulle o negative. Questi Paesi, per non aver pareggiato i conti pubblici (che avrebbe richiesto un maggiore contributo dei contribuenti più ricchi), hanno accumulato debiti pubblici, vendendo al contempo una quota crescente dei propri beni pubblici, tanto che i primi hanno finito per sorpassare i quest’ultimi».

Piketty su questo punto vuole essere molto chiaro: «I Paesi ricchi sono ricchi, nel senso che la ricchezza privata non è mai stata così alta; solo i loro Stati sono poveri. Se persistono ad andare in questa direzione, potrebbero ritrovarsi con un patrimonio pubblico sempre più negativo, il che corrisponderebbe a una situazione in cui i possessori di titoli di debito possiedono non solo l’equivalente di tutti i beni pubblici (edifici, scuole, ospedali, infrastrutture, ecc.), ma anche un diritto di prelievo su una quota crescente delle imposte future dei contribuenti. D’altra parte, sarebbe del tutto possibile, come è stato fatto nel dopoguerra, ridurre in maniera accelerata il debito pubblico drenando i patrimoni privati più alti e restituendo così margini di manovra alle autorità pubbliche».

Piketty conclude: «E’ a questo prezzo che torneremo a una politica ambiziosa di investimenti nell’istruzione, nella salute, nell’ambiente e nello sviluppo. C’è anche l’urgente necessità di revocare i diritti sui vaccini, di condividere i ricavi delle multinazionali con i Paesi del Sud e di mettere le piattaforme digitali al servizio dell’interesse generale. Più in generale, è necessario promuovere un nuovo modello economico basato sulla condivisione della conoscenza e del potere a tutti i livelli, nelle imprese come nelle organizzazioni internazionali. Il neoliberismo, mettendo ogni potere nelle mani dei più ricchi ha indebolito il potere pubblico, al nord come al sud, e in realtà ha solo rafforzato il modello cinese, come del resto ha fatto il patetico neonazionalismo trumpista o modista (da Modi, il premier della destra induista indiana. ndr). E’ tempo di passare a qualcos’altro».