La difficile transizione del Cile e dell’America Latina, in bilico tra sinistra plurale ed estrema destra golpista

Boric non andrà con Piñera ai vertici dell'Alleanza del Pacifico e del Prosur e avrà altre priorità in politica estera, compreso il clima

[28 Dicembre 2021]

Il presidente eletto di sinistra del Cile, Gabriel Boric, ha detto che non accompagnerà il presidente uscente di destra, Sebastián Piñera, ai vertici che l’Alleanza del Pacifico e il Foro para el Progreso e Integración de América del Sur (Prosur)  terranno il 26 e 27 gennaio in Colombia. Boric infatti ha dichiarato: «Ho comunicato personalmente con il presidente per informarlo che ho deciso di non partecipare al vertice in Colombia al quali  ci aveva invitato».

Rivelazioni che hanno subito acceso il dibattito su quale sarà il tenore – e la spigolosità istituzionale – della transizione cilena che l’11 marzo porterà alla Moneda il presidente più a sinistra, più giovane e più votato che abbia mai avuto il Cile.

Il leader della nuova sinistra cilena ha tentato di sn morzare le polemiche: «Ci siamo messi a disposizione di quelle che sono le future autorità nel campo delle relazioni internazionali per compiere tutti i passi necessari affinché questo non venga comunque inteso come un disonore di Stato, ma ci sembra che le nostre priorità siano nella conformazione delle squadre qui in Cile». Boric ha chiarito che, prima di annunciare il suo rifiuto, ne ha parlato con il presidente uscente: «Gli ho detto che è importante che questo genere di cose se ne parli di persona e non sulla stampa. Nelle politiche statali bisogna stare attenti a non entrare in dibattiti che potrebbero nuocere all’immagine del Paese» e ha aggiunto: «Entrambi hanno la migliore disposizione affinché il trasferimento dei poteri venga effettuato nelle migliori condizioni».

Boric ha però annunciato un cambiamento di priorità e prospettive nella politica estera cilena e ha detto che durante il suo governo darà priorità al rafforzamento dell’Alleanza del Pacifico, del quale ha già parlato con i presidenti del Messico, Andrés Manuel López Obrador (sinistra) e Colombia, Ivan Duque (destra). Invece, Boric ha avvertito che per quel che riguarda il Prosur, un blocco fondato nel 2019 su iniziativa di Duque e Piñera e che riunisce alcuni dei governi conservatori dell’America Latina, ha un’agenda politica di destra voluta da <l presidengte uscente del Cile e che lui non condivide.

La critica verso la politica estera della destra cilena è senza mezzi termini: «Crediamo che sia importante avere una visione globale. L’agenda internazionale sviluppata in questo governo non è stata delle migliori – ha sottolineato Boric – Quando sarà il nostro turno di entrare in ncarica, svilupperemo la nostra agenda regionale basata su prospettive di collaborazione per le enormi sfide che abbiamo a livello regionale e mondiale: la pandemia, la crisi climatica, la crisi migratoria e, tra l’altro, la cooperazione economica e il rafforzamento della democrazia».

Anche se il neopresidente di sinistra del Cile si è sempre detto favorevole a promuovere l’integrazione latinoamericana, non ha confermato se il Cile tornerà ad aderire all’Unión de Naciones Sudamericanasa (Unasur), che Piñera ha abbandonato in polemica con i governi di sinistra sudamericani.

Boric  ha però sottolineato che la regione deve unirsi al di là dei governi del momento: «Non è auspicabile che ogni quattro anni, o a seconda dei cambi di mandato, si cambi la politica dell’alleanze, perché i governanti passano, ma i Paesi rimangono. E con questa prospettiva, cercheremo la massima integrazione possibile con tutti coloro che sono disponibili per questo, andando oltre le affinità ideologiche».

La destra latinoamericana ha subito in Cile una durissima sconfitta che fa seguito a quelle in Bolivia, Perù e Honduras (a vinto solo in Ecuador e solo grazie alle divisioni tra la sinistra indigenista e il correísmo) che avrà anche riflessi sulla politica regionale e internazionale ma, come scrive Ociel Alí López, un sociologo, analista politico e professore all’Universidad Central de Venezuela. «Anche la sinistra latinoamericana ha perso riferimenti. La debacle del modello petrolifero venezuelano, l’attuale sconfitta del peronismo alle elezioni di medio termine, la debolezza del governo di Pedro Castillo e l’impotenza dei socialisti boliviani a egemonizzare le forze armate e di polizia sono situazioni che sollevano interrogativi sulla fattibilità di progetti progressisti. Non ci sono modelli precisi da seguire neanche in questo campo. Non c’è nemmeno la certezza che le formule esistenti possano durare oltre un certo periodo e realizzare anche parte della loro agenda di cambiamento, al di là di una migliore distribuzione della ricchezza (quando questa abbondanda). Inoltre, le critiche di Boric a Maduro (il presidente del Venezuela) e Díaz Canel (il presidente di Cuba) mostrano che non è un movimento così coeso come nel primo decennio del secolo. Tuttavia, l’emergere della leadership di Andrés Manuel López Obrador potrebbe fungere da asse articolatore di un vero crogiolo di esperienze che si sono posizionate negli ultimi anni. La sinistra non ha ancora saputo metabolizzare i suoi fallimenti e si creano divisioni intorno a programmi massimalisti con margini di manovra quasi nulli, e minimalisti che propongono trasformazioni molto timide in relazione alle richieste degli elettori,  soprattutto quelle dei settori popolari. E’ una tensione che accompagna questi processi. Nel 2022 vedremo come si svilupperanno queste contraddizioni e come si comporterà l’elettorato dei Paesi che terranno le elezioni presidenziali e che sono fondamentali per verificare che questa tendenza progressista stia prendendo il sopravvento in tutta l’America Latina».

E per López le sfide più importanti sono due: «La Colombia è fondamentale perché è la testa di ponte degli Stati Uniti nella regione. Per la prima volta in tanti anni si sono create le condizioni perché la sinistra vinca, nelle mani di un ex guerrigliero ed ex sindaco di Bogotà: Gustavo Petro, primo nei sondaggi ma che dovrà superare un’infinità di ostacoli di vario spessore prima di vincere, dalle campagne diffamatorie globali alla propria sicurezza, in un Paese abituato a risolvere violentemente le proprie divergenze. Petro non è solo un nemico della mano dura degli Stati Uniti, poiché toglierebbe loro la loro comfort zone, dove possono muoversi impunemente, ma è anche un nemico dei paramilitari che controllano strettamente i territori attraverso i quali dovrà fare la sua campagna elettorale. Molti candidati sono stati assassinati e la vita di Petro è in pericolo».

L’altra grande sfida è quella che aspetta il Brasile: quella tra l’ex presidente di sinistra Lula da Silva e l’attuale presidente neofascista Jair Bolsonaro. Per  López, «Un’ipotetica sconfitta di quest’ultimo implicherebbe il fallimento della nuova strategia della destra di fronte ai movimenti progressisti, secondo la quale, contro i populismi di sinistra radicalizzati, si dovrebbe forzare la polarizzazione e progettare leader populisti di destra radicalizzati. Il primo è stato Macri, già sconfitto, ma il più importante è stato Bolsonaro, che l’anno prossimo dovrà superare una dura prova».

Una situazione pericolosa, soprattutto in Cile dove l’esercito non ha mai dismesso le sue nostalgie golpiste e per il regime fascista di Pinochet e che ha appoggiato platealmente il candidato di estrema destra José Antonio Kast. E López conclude facendo notare  che «La cosa complessa della questione è che la destra, alleata degli Usa, non mollerà con le vecchie e nuove sconfitte. Cercherà con ogni mezzo di cambiare questo panorama ed è lì che la situazione si fa più complessa perché, alla fine, ciò che a loro non serve più è la democrazia ed è possibile che inizino a pensare a nuove modalità di accesso al potere: torneranno le dittature in America Latina?»